Dieci tra le guerre più ridicole della Storia

Una classifica dei casus belli più stupidi che siamo riusciti a trovare.

Tutte le guerre sono ridicole, si potrebbe obiettare. Ma al di là della valutazione di fondo sulla natura del conflitto umano, alcune di esse raggiungono un superiore livello di stupidità. La memoria storica ci consegna aneddoti di guerre che hanno davvero spiccato per l’insignificanza dei casus belli che le hanno generate o per il modo in cui sono state condotte, finendo per sfociare nel tragicomico. Vi proponiamo una lista, non comprensiva, delle dieci “guerre ridicole” preferite da Bunte Kuh.

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Particolare della prima pagina del “Petit Journal” dell’8 novembre 1925, illustrante gli avvenimenti dell’incidente di Petrich, o “Guerra del cane smarrito”. (Getty Images)

10. La guerra del cane smarrito (1925)

Negli anni Venti, Bulgaria e Grecia non erano affatto due nazioni caratterizzate da una forte amicizia reciproca. Anzi: la Prima guerra mondiale e le Guerre balcaniche avevano creato una situazione tesa al confine, poiché entrambi gli Stati si contendevano il dominio su alcune regioni della Macedonia e della Tracia. Con le frontiere così militarizzate, nessun uomo avrebbe rischiato di provocare un incidente che si sarebbe facilmente evoluto in conflitto a fuoco.

E infatti non fu un uomo a pensarci. Il 18 ottobre del 1925, il cane di un soldato greco pensò bene di farsi una corsetta oltre la frontiera, nei pressi della cittadina bulgara di Petrich; il padrone, che intendeva riportarlo indietro, lo inseguì. Nel vedere il soldato avvicinarsi di corsa, le guardie bulgare interpretarono la situazione come un attacco a sorpresa e gli spararono, provocando una piccola schermaglia. La scusa fu buona come qualunque altra: il governo militare greco ordinò l’invasione di Petrich, dando luogo a un conflitto che durò diversi giorni. La Bulgaria ammise l’incidente e si offrì di creare un’apposita commissione d’indagine; la Grecia rifiutò, ponendo ai cobelligeranti un ultimatum comprensivo di due milioni di franchi per le famiglie delle vittime.

Fu infine la Società delle Nazioni a decretare la fine delle ostilità. Essa ordinò una tregua e il ritiro delle truppe elleniche da Petrich, oltre a comminare alla Grecia una riparazione di 45mila sterline da pagare alla Bulgaria. Le vittime furono 171: 50 bulgari, in prevalenza civili, e 121 greci. La sorte del cane rimane a oggi sconosciuta.

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Vignetta satirica del 1738, conservata al British Museum, in cui Robert Jenkins mostra al premier Robert Walpole il suo orecchio tagliato.

9. La guerra per l’orecchio di Robert Jenkins (1739 – 1748)

Nel 1731, il capitano gallese Robert Jenkins comandava il brigantino commerciale Rebecca presso le coste della Florida. All’epoca, Regno Unito e Spagna avevano concordato un asiento, ossia un diritto di prelazione che il regno iberico poteva vantare nella fornitura di schiavi alle proprie colonie. Il Trattato di Siviglia (1729) concedeva alle navi spagnole la possibilità di bloccare le spedizioni commerciali britanniche, e fu proprio ciò che accadde allo sventurato Jenkins. Ma Juan de León Fandiño – comandante de La Isabela – si fece prendere la mano: dopo aver accusato il gallese di praticare contrabbando, procedette a tagliargli un orecchio, affermando: «Va’ e di’ al tuo re che lo farò di nuovo, se egli osa fare lo stesso.»

Il povero Jenkins non ebbe giustizia che nel marzo 1738, quando fu convocato davanti al Parlamento a testimoniare del suo incidente. Non esiste un rapporto scritto della seduta, ma pare che il capitano mostrò ai deputati il suo orecchio mozzato, quale prova. Gli attacchi spagnoli alle navi inglesi, frequenti e mal tollerati, trovarono una valvola di sfogo nell’episodio di Robert Jenkins: citando come casus belli l’affronto subito, l’Impero britannico dichiarò guerra alla Spagna.

Nel 1742, la Guerra per l’orecchio di Jenkins sfociò nella più vasta Guerra di successione austriaca, che nel frattempo era scoppiata in Europa. La fine del conflitto anglo-spagnolo viene fatta risalire al termine di quest’ultima, nel 1748, nonostante già nel ’42 le ostilità stessero tendendo a cessare. Il bilancio totale, ambo gli schieramenti, fu di circa 25mila morti e 600 navi affondate.

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L’arcipelago di San Juan, teatro di un’escalation militare UK-USA che ebbe per oggetto un maiale e alcune patate. (Wikipedia)

8. La guerra del maiale e della patata (1859) 

A metà Ottocento, l’irlandese Charles Griffin gestiva un ranch sull’Isola di San Juan, oggi nello Stato del Washington. L’uomo non poteva immaginare che la sua abitudine di lasciar razzolare i maiali fuori dal recinto avrebbe condotto a una guerra tra Stati Uniti e Regno Unito. Ma così fu: una delle bestie aveva l’abitudine di spingersi fino al vicino campo dell’americano Lyman Cutlar, per poi divorare le patate da questi coltivate con fatica.

In una di queste occasioni, la pazienza dell’agricoltore si esaurì: Cutlar sparò al maiale uccidendolo, e successivamente si offrì di rimborsare a Griffin la somma di 10 dollari. Ma l’irlandese, indignato, ne chiese almeno 100. Al che Cutlar pose fine alle trattative, dichiarando che il maiale si trovasse illegalmente sulla sua proprietà. La situazione raggiunse un climax inaspettato quando le autorità britanniche tentarono di arrestare Cutlar.

L’arcipelago di San Juan, infatti, era oggetto di disputa tra USA e Canada britannico, dato che un’ambiguità presente nell’Oregon Treaty (1846) non ne definiva chiaramente la sovranità. In sostanza, sia britannici che americani rivendicavano San Juan quale legittimo territorio, tanto che i coloni statunitensi si rivolsero al proprio esercito per opporsi all’arresto di Cutlar. Il distaccamento dell’Oregon rispose inviando 66 militari, ai quali seguì l’intransigente reazione della Royal Navy: tre navi da guerra.

L’escalation continuò, finché non finirono per fronteggiarsi 460 soldati americani, armati di 14 cannoni, e 2.140 soldati britannici, dotati di 5 navi da guerra. Nota la citazione attribuita nel frangente al capitano statunitense George Pickett: «La renderemo una nuova Bunker Hill». Fortunatamente, gli ordini dei rispettivi comandi militari non furono affatto così aggressivi: entrambe le nazioni intimarono ai propri uomini di reagire per sola difesa, e non sparare il primo colpo. I soldati di entrambi gli eserciti andarono così avanti a insultarsi a vicenda per giorni, nel tentativo di indurre il nemico a scatenare lo scontro armato; prevalsero però sangue freddo e buon senso e nessun colpo fu sparato.

Nel frattempo, i due governi decisero di spegnere subito la miccia e concordarono nel ridurre le guarnigioni a 100 uomini ciascuna. Queste rimasero tali fino alla fine dei negoziati, tredici anni dopo, e alla risoluzione pacifica – in favore degli Stati Uniti – da parte di un arbitrato internazionale.

Un evento simile fu l’incidente di confine verificatosi tra Maine e New Brunswick, e rimasto noto come Guerra di Aroostook (1838 – 1839). In questo caso, la diatriba tra UK e USA fu scatenata dal taglio di legname in un territorio contestato, e la “belligeranza” si limitò principalmente al furto di provviste di carne di maiale e fagioli tra i rispettivi eserciti.

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Il nemico numero uno della Francia: la cittadina di Líjar, 500 abitanti all’ultimo censimento. (Sabemos)

7. La guerra tra Francia e la cittadina di Líjar (1883 – 1983)

Líjar è una cittadina andalusa che attualmente consta di circa cinquecento abitanti. E sì, è stata in guerra per cent’anni con la Francia. Le origini di questo conflitto particolarissimo – e privo di sangue – sono da ricercarsi nella visita di Alfonso XII in Francia, nel 1883. In quell’occasione, il re spagnolo fu pesantemente insultato da alcuni abitanti parigini e, sembra, perfino attaccato fisicamente. Il re, in virtù della ragion di stato, minimizzò l’accaduto; ma i cittadini di Líjar ne uscirono offesi a morte.

Nell’ottobre dello stesso anno, l’assemblea comunale del paesino decretò quanto segue: «Il nostro re Alfonso, mentre passava per Parigi il 29 di settembre, è stato preso a sassate e offeso nel più codardo dei modi dalle miserabili orde della nazione francese. […] il villaggio di Líjar, nonostante disponga solo di 100 uomini, si propone di dichiarare guerra all’intera Francia, dato che un solo uomo di questo villaggio vale quanto 10.000 francesi».

Un atto unilaterale e folle che, come si può ben intuire, non ebbe mai alcuno sviluppo reale sul piano internazionale. Ma a Líjar, inevitabilmente, è una storia che conoscono tutti, tramandata di padre in figlio e ormai – nell’era del turismo di massa – una piccola attrattiva locale. Tanto che nel 1983, quando il sindaco decise di porre fine alle “ostilità”, parte dei coraggiosi concittadini si oppose sonoramente alla decisione. Purtroppo, l’indiscusso valore di Líjar non è mai stato preso per più che una drôle de guerre da parte dei “nemici”. Jean-François Thiollier, ambasciatore a Madrid al tempo del “trattato” di “pace”, commentò la vicenda così: «Troviamo il tutto molto divertente, ma è bello che qualcuno voglia fare pace».

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“Sika dwa kofi”, lo sgabello dorato sacro al popolo Ashanti. (thekingdomofasante.com)

6. La guerra dello sgabello d’oro (1900)

Oltre alla tendenza a scatenare guerre alla prima occasione buona, quale è stata l’altra prerogativa del defunto Impero britannico? Esattamente, il colonialismo. E, più spesso che non, le due “passioni” tipicamente albioniche si sono intrecciate fra loro. Una guerra come quella con l’Impero Ashanti, però, rimane un caso estremamente particolare. Per il popolo che abitava l’odierno Ghana, il famigerato sgabello d’oro costituiva un vero e proprio oggetto sacro: trono reale, simbolo del potere supremo, si diceva che fosse sceso dal cielo e che contenesse lo spirito di vivi, defunti e non ancora nati della nazione Ashanti.

Nel 1895 il Regno Unito aveva invaso l’impero africano, di fatto assimilandolo al pari delle altre colonie britanniche nella Costa d’Oro; il re Prempeh I fu costretto all’esilio alle Seychelles. Cinque anni dopo, il governatore coloniale Frederick Hodgson ebbe la splendida idea di reclamare lo sgabello per sé. Conoscendo il valore dell’oggetto – ma trascurando, evidentemente, l’importanza dello stesso per gli Ashanti – si rivolse direttamente alla folla, chiedendo che il sacro artefatto gli fosse consegnato per sedervisi sopra. Lo sgabello, riteneva Hodgson, apparteneva ora alla regina Vittoria e, se la consegna non fosse avvenuta spontaneamente, sarebbe stata condotta una ricerca a tappeto per trovarlo.

Alla popolazione bastò sentire quelle parole per infiammarsi immediatamente. La regina madre Yaa Asantewaa organizzò una forza militare per liberare il re in esilio, e la squadra di ricerca dello sgabello fu presa d’assalto e costretta alla ritirata. Nei mesi successivi, gli Ashanti cinsero d’assedio il fortino locale dei britannici, compiendo sabotaggi e iniziative isolate. A giugno Hodgson ricevette un rinforzo di mille unità, che ribaltò la situazione e portò all’assedio della capitale Kumasi il mese successivo. Entro settembre, le truppe ausiliarie del maggiore James Willcocks procedevano a sedare la ribellione nelle regioni circostanti. Il bilancio definitivo fu di tremila morti (mille britannici e duemila Ashanti).

Infine l’Impero Ashanti fu annesso a quello britannico, pur mantenendo un’indipendenza de facto dovuta alla resistenza locale: fondamentale, in questo senso, il mantenimento dello sgabello, nascosto nelle foreste per tutta la durata della guerra. I britannici smisero di cercare l’oggetto nel 1920; purtroppo, poco dopo, alcuni lavoratori lo rinvennero per caso e lo spogliarono dei rivestimenti dorati, rendendolo privo di potere agli occhi degli Ashanti.

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Horace Vernet, “Épisode de l’expédition du Mexique en 1838”, 1841.

5. La guerra dei pasticcini (1838 – 1839)

Correva l’anno 1832 quando monsieur Remontel, pasticcere francese residente a Tacubaya (Messico), subì il saccheggio del proprio forno da parte di ignoti. Non era la prima volta che avveniva un fatto simile: il Paese viveva in quel momento una fase di rivolta civile che sfociava spesso e volentieri in violenza. La Francia fu particolarmente indispettita dall’accaduto: simili saccheggi nei confronti di cittadini francesi si erano già verificati, come anche l’omicidio di un connazionale accusato di pirateria.

Sei anni dopo, la lamentela di Remontel portò il primo ministro Louis-Mathieu Molé a chiedere allo Stato messicano una riparazione di 600.000 pesos, pari a circa 3 milioni di franchi dell’epoca. Una cifra enorme che il suo corrispettivo d’oltreoceano, Augusto Bustamante, rifiutò di consegnare. La Francia predispose allora un embargo navale nei confronti del Messico, per poi procedere a bombardare la fortezza di San Juan de Ulúa e invadere la città di Veracruz. Nel corso della battaglia di Veracruz, il generale Antonio López de Santa Anna – appositamente tornato dalla pensione – subì l’amputazione di una gamba, che fu sepolta con tutti gli onori militari.

Il conflitto durò circa tre mesi, durante i quali la Francia fu aiutata dal principale alleato dell’area, gli Stati Uniti. Dei seimila soldati che si trovarono ad affrontarsi, le vittime furono 127. La pace, moderata dal Regno Unito, segnò la vittoria francese e condannò il Messico al pagamento dei famigerati 600.000 pesos ai cittadini che avevano subito i torti, oltre a una serie di vantaggi commerciali per i transalpini. Il Messico, però, non saldò mai il debito, e ciò fu tra le principali cause delle successive guerre franco-messicane.

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Il primo tra i match di qualificazione ai Mondiali 1970 tra Honduras e El Salvador, che condussero alla guerra i due Paesi. (Historia de las Selecciones de Fútbol de El Salvador)

4. La guerra del fútbol (1969)

Gli scontri tra tifoserie somigliano sempre di più a guerre, non è vero? In questo caso non sarebbe sbagliato affermare il contrario. Nel 1969, El Salvador e Honduras si giocavano la qualificazione ai Mondiali di Calcio dell’anno successivo. Per inciso, le relazioni tra i due Stati si trovavano ai minimi storici a causa di problemi relativi all’immigrazione: in Honduras si trovavano infatti circa 300mila salvadoregni, che costituivano una buona percentuale della popolazione agricola del Paese ospite. Nel 1967, una legge di riforma agraria espropriò le terre agli immigrati salvadoregni – tanto regolari quanto irregolari – il che costituì l’esplosiva ricetta che due anni dopo condusse al conflitto armato.

L’8 giugno 1969, si giocò a Tegucigalpa il primo dei due scontri diretti tra le nazionali di Honduras e El Salvador: prevalse per 1-0 la squadra di casa, e si verificarono le prime violenze tra tifosi. Il match di ritorno, giocato sette giorni dopo a San Salvador, vide a sua volta la vittoria della squadra di casa per 3-0, e fu seguito da scontri ancora più intensi. A questo punto fu necessario giocare una partita di spareggio, che si giocò su campo neutrale il 26 giugno. Qualcosa di grosso era già nell’aria, tanto che i cittadini di un Paese residenti nell’altro si mossero per tornare nelle rispettive patrie. Infatti, galeotto fu lo spareggio e chi lo indisse: al termine del match – vinto da El Salvador per 3-2, ai tempi supplementari – il Governo salvadoregno troncò i rapporti diplomatici con i vicini, citando l’incapacità di risolvere il “genocidio” ai danni dei propri cittadini.

Due settimane dopo, il 14 luglio, iniziarono gli scontri militari. L’aviazione salvadoregna attaccò a sorpresa, utilizzando aerei civili carichi di esplosivo per bombardare bersagli strategici in Honduras: fu colpita anche una base aerea, cosa che limitò la capacità dei difensori di reagire prontamente. Infatti gli honduregni riuscirono a controbattere – all’avanzata aerea e su terra – solo due giorni dopo, colpendo a loro volta la base di Ilopango e alcuni oleodotti.

Nel frattempo, l’Osa (Organizzazione degli Stati Americani) intimò a entrambi i membri il ritorno nei ranghi: i primi inviti alla tregua furono ignorati dal governo honduregno, preso dal timore che El Salvador potesse approfittarne per prendere la capitale Tegucigalpa. Il 18 luglio, dopo quasi quattro giorni – motivo per cui il conflitto è anche noto come Guerra delle 100 ore – fu raggiunto l’accordo per il cessate il fuoco. Le truppe salvadoregne si ritirarono dal Paese il 2 agosto, lasciandosi dietro più di tremila morti (900 salvadoregni, 2.250 honduregni). Ancora oggi, nonostante le formalità previste dal trattato di pace del 1980, la disputa è considerata aperta.

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La “secchia rapita”, casus belli tra Bologna e Modena, è ancora oggi conservata nel palazzo comunale di Modena. La secchia esposta in una sala della Ghirlandina è in realtà una copia. (Modena Today)

3. La guerra della secchia rapita (1325)

L’unico caso nostrano di questa classifica riguarda il celebre scontro medievale tra Bologna e Modena, che ebbe per oggetto, letteralmente, un secchio di legno. La guerra si situa nel più ampio conflitto tra guelfi e ghibellini, i quali – com’è noto – sostenevano rispettivamente il Papa e il Sacro Romano Imperatore relativamente al contesto delle città-stato italiane. Tra guerre e periodi di pace, lo scontro politico e militare tra le due fazioni andò avanti per quattro secoli.

La guelfa Bologna e la ghibellina Modena erano inoltre rivali sul piano regionale: “campanilismo” in senso stretto, dato che una forma di competizione tra le due città passava anche per la costruzione di alti campanili quali la Ghirlandina modenese, oggi patrimonio Unesco, nel Trecento appositamente ristrutturata in modo da far sfigurare le torri bolognesi. Nel 1325 la situazione tra le due città non era particolarmente tranquilla: Bologna e Modena si erano già rese protagoniste di diverse schermaglie locali, non sfociate in guerre vere e proprie ma piuttosto battaglie episodiche, comunque difficili per la popolazione.

Fu in questo contesto che, il 15 novembre, alcuni soldati modenesi decisero di infiltrarsi nel centro di Bologna e rubare la celebre secchia, che giaceva accanto a un pozzo. C’è chi racconta che questa fosse piena di tributi; altri affermano che fosse assolutamente senza valore. Fatto sta che i bolognesi non intendevano accettare l’affronto: fu chiesto a Modena di riconsegnare la secchia, e al rifiuto dei rivali si procedette a dichiarare guerra.

La guerra si svolse in un’unica battaglia, quella di Zappolino, dove si affrontarono in totale quasi 40mila soldati (32mila bolognesi e 7mila modenesi), coadiuvati dai rispettivi alleati guelfi e ghibellini. Incredibilmente, Modena – impreparata e in inferiorità numerica – respinse l’assalto di Bologna e fece arretrare i rivali fin dentro le mura della propria città, per poi sbeffeggiarli. I morti furono duemila. La secchia è ancora oggi a Modena, dove di tanto in tanto si tiene a ricordare ai bolognesi l’antica ma bruciante faccenda. La quale, peraltro, ispirò il poema eroicomico La secchia rapita di Alessandro Tassoni.

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Lucas Hochenleitter, “Vorstellung der Türkischen Haupt Armee mit 80.000 Mann in Anmarsche bei Sophia in Bulgarien”, 1788. Ma come difendersi, quando il nemico più grande è dentro di te?

2. La “battaglia” di Karánsebes (1788)

Questo episodio rientra difficilmente nella categoria delle “guerre”, e sarebbe arduo perfino catalogarlo come “battaglia” in senso stretto. Ma l’evento di Karánsebes, avvenuto nel corso della Guerra austro-ottomana (1788 – 1791), non solo rientra a pieno titolo nella presente classifica: si posiziona addirittura al secondo posto. L’episodio avvenne nei pressi dell’omonima città, oggi parte della Romania, la notte tra il 21 e il 22 settembre 1789.

I belligeranti non furono altri che l’esercito austriaco contro se stesso. L’armata, composta da 100mila uomini, si era accampata nei pressi del fiume Timiș; dalle successive ricostruzioni è emerso come la vicenda fu generata da una squadra di ussari mandata in ricognizione sull’altra riva, per verificare la presenza dell’esercito ottomano. Dei turchi nessun segno, ma gli ussari si imbatterono in un gruppo di gitani dai quali acquistarono del liquore. Poco dopo, una squadra di fanti attraversò a sua volta il fiume per ritrovarsi davanti gli ussari ubriachi; anche questi ultimi soldati erano stanchi e sconfortati, e desideravano bere. Gli ussari convennero di non condividere i propri alcolici, e ne nacque un’accesa discussione; a un certo punto qualcuno sparò un colpo, e i due gruppi si ritrovarono a combattere tra loro.

La situazione degenerò definitivamente quando i fanti, per spaventare gli ussari, iniziarono a gridare: «I turchi! I turchi!». L’esercito austro-ungarico era composto da soldati di nazionalità diverse, che spesso avevano difficoltà a esprimersi in una lingua comune. Il falso allarme fu perciò interpretato come vero, a causa del passaparola, e scoppiò il caos; anche i tentati «Halt!» da parte degli ufficiali furono scambiati da alcuni militari per «Allah!». A metterci il carico da novanta fu un comandante che, uscito dalla tenda, vide gli ussari galoppare per il campo e pensò a un attacco della cavalleria ottomana: pertanto, decise di ordinare un attacco con l’artiglieria. Nel frattempo il resto delle truppe procedeva ad ammazzarsi vicendevolmente, credendo che il nemico fosse ovunque. Successivamente, l’intero esercito arretrò la propria posizione convinto di trovarsi in pieno fronte.

Il risultato non fu ovviamente positivo, sebbene si ritenga che la stima di 10mila vittime – proposta da alcuni – sia esagerata: la maggior parte degli storici concorda che l’evento di Karánsebes causò 1.200 tra morti e feriti, che per un caso di fuoco amico non sono comunque pochi. Gli ottomani arrivarono solo due giorni dopo e presero la città senza alcuna resistenza, probabilmente incuriositi dai numerosi corpi dei nemici sparsi nelle vicinanze.

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Disporre di armi e tecnologia non assicura automaticamente la vittoria di una guerra. Gli emù lo sanno bene, e l’Australia l’ha imparato a sue spese. (Western Australia Department of Agriculture and Food)

1. La grande guerra degli emù (1932)

L’indiscussa regina di questa classifica di “guerre ridicole” non può che essere lei: evento a lungo dimenticato, poi venerato alla stregua del tormentone presso gli addetti ai lavori e certe parti di Internet. La Grande guerra degli emù, nel corso della quale l’esercito australiano perse contro un branco di emù, ebbe luogo dal 2 novembre al 10 dicembre del 1932.

Verso la fine degli anni Venti, le fattorie agricole nell’Australia dell’ovest erano minacciate da due fattori: il primo fu la Grande Depressione, che comportò la carenza di materie prime e l’insufficienza dei sussidi statali. Il secondo fu lo stanziamento nell’area di circa 20mila emù. I grandi pennuti, attratti dai campi coltivati, procedevano a divorarne i raccolti lasciandosi dietro terra morta. La situazione spinse alcuni veterani, poi diventati contadini, a chiedere aiuto al ministro della Difesa George Pearce – poi rimasto noto come “ministro della Guerra degli emù”, ahilui.

Pearce inviò nell’area la Royal Australian Artillery, sotto il comando del maggiore G. P. W. Meredith. Il 2 novembre iniziarono i primi “scontri”, che in realtà consisterono in raffiche di mitragliatrice rivolte contro i volatili. Le prime raffiche fallirono perché gli emù si trovarono fuori portata, mentre le successive uccisero “forse una dozzina” di essi. Due giorni dopo, altri mille emù furono avvistati nei pressi di una diga, ma la mitragliatrice si inceppò dopo averne uccisi solamente dodici.

Altro problema era dato dal movimento eccessivamente rapido degli invasori piumati: Meredith ordinò che fosse montata una mitragliatrice su un camion, ma anche in questo modo gli emù si rivelavano essere più veloci e capaci di fuggire al fuoco nemico. Dopo sei giorni di “combattimenti” e 2.500 proiettili sparati, gli uccelli uccisi ammontavano a una cinquantina. Meredith riportò fiero nel suo verbale che i suoi uomini non avevano subito perdite. L’8 novembre, a causa dell’impatto mediatico negativo, Pearce ordinò la ritirata.

Gli emù proseguirono nel loro ingordo attacco, al punto da convincere i contadini a chiedere un nuovo supporto statale. Questo arrivò il 12 novembre, nuovamente guidato da Meredith, e si rivelò più efficace: i rapporti parlano di 10 colpi sparati per ogni emù ucciso, per un totale di 2.500 “nemici”. Ma nemmeno il secondo intervento bastò a estirpare interamente la minaccia pennuta: i contadini furono costretti a chiedere aiuto altre tre volte (1934, 1943, 1948), ma senza ricevere altra risposta dal governo. La guerra era conclusa: gli emù avevano vinto.

Valerio Bastianellihttps://buntekuh.it
Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università La Sapienza e in Informazione, Comunicazione ed Editoria all'Università di Tor Vergata. Sono fondatore e direttore editoriale di Bunte Kuh, oltre che autore e responsabile tecnico per theWise Magazine.

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