Se la lingua è lo specchio di ciò che pensiamo, dobbiamo fare i conti con il pensiero. Dobbiamo chiederci come costruiamo la società in cui viviamo in funzione della grammatica delle nostre parole. Negli ultimi anni si è aperta una nuova questione linguistica che la lingua italiana non ha mai risolto: la questione di genere nella lingua.
Sindaco, sindaca o sindaco donna?
La lingua che parliamo è la rappresentazione che scegliamo di dare alla realtà. Quando nel 2016 è stata eletta la sindaca di Roma Virginia Raggi, gran parte dei titoli e articoli di giornale le applicarono la voce “sindaco”. Si scatenò una disputa sul morfema grammaticale da applicare da parte di chi chiedeva una ridefinizione della desinenza in funzione del genere. La soluzione offerta dai giornali fu l’adozione dell’espressione “il sindaco donna”.
Questa formula fu persino adottata dal collettivo femminista “Se non ora quando – News” in un post che riportava la seguente frase:
«Un evento straordinario è avvenuto a Città del Messico: si è insediata, dopo aver vinto a luglio, la prima sindaca donna nella più grande città del Sud America, Claudia Sheinbaum.»
E la stessa cosa successe con “l’astronauta donna” Samantha Cristoforetti (ribattezzata dal mondo del giornalismo con il nome da cartomante AstroSamantha). Se in quest’ultimo caso il nome proprio aiuta a identificare una parola non declinabile, nel caso di “sindaco” sembrava essere un errore grammaticale porlo al femminile e dunque l’unica soluzione sembrava essere la specificazione del genere sessuale.
Sembra che il caso della sindaca Virginia Raggi abbia funzionato da apripista alla riflessione sulla morfologia e sulla flessione di genere dei nomi di mestiere e professione. Questo grazie alla sempre maggiore presenza delle donne nel campo professionale, pubblico e politico che vogliono e devono essere rappresentate dalla lingua che parliamo.
Da quando la questione della linguistica di genere è emersa, le reazioni sono state principalmente tre: indifferenza, aggressività, ilarità. Quasi come se la volontà di sentirsi socialmente e linguisticamente rappresentati fosse un diritto minore della persona. Eppure, le forti reazioni sembrerebbero toccare delle corde culturali, sociali, storiche molto tese.
La flessione di genere non è questione solo linguistica
In realtà, lo studio dell’uso del genere nella grammatica è frutto di analisi da molto tempo. Se Greville Corbett si occupò dello sviluppo delle marche di genere nelle lingue indoeuropee, Roman Jakobson parlò di elementi sociologici e percettivi che influenzano la lingua. Jakobson affermava che il genere e la marca vengono assegnati a una parola come riflesso della percezione per il quale qualcosa si ritiene opportuno nel modo in cui viene espresso, e non in un altro. La parola funziona da discriminante, inteso come elemento di distinzione, nei confronti di un’altra parola.
La lingua è sessista? A partire dal concetto di discriminante, si è sviluppato un filone di studio che si occupa della lingua di genere e di come lo stereotipo culturale sia radicato in ciò che diciamo.
I contributi che hanno costituito delle svolte della storia della linguistica di genere sono diversi ma se si volesse dare conto dei due principali punti di vista proposti non si può non citare, da una parte l’opera di Alma Sabatini del 1986 Il sessismo nella lingua italiana e dall’altra un inserto di Monica Berretta, incluso in un’opera maggiore del 1983, dal titolo Per una retorica popolare del linguaggio femminile, ovvero, la lingua delle donne come costruzione sociale.

Alma Sabatini riconosce dei residui linguistici definiti maschilisti perché motivati solo da una struttura sociale che limita le donne ai margini; d’altra parte Monica Berretta dimostra analiticamente che le donne fanno un uso diverso della lingua (usando più aggettivi e diminutivi rispetto agli uomini). Questo, secondo lei, sta a dimostrare che i sistemi di pensiero dei due generi sessuali sono diversi. Quasi escludendo il modo in cui il pensiero viene creato e modellato nel processo di educazione dell’individuo.
“Mi addi la pagina della ministra?”
“Un elemento in comune delle due opere riguarda il grado di accettazione dei neologismi da parte della società. Tendenzialmente, la massa parlante accetta e assimila in diversi modi nuove parole, soprattutto se si tratta di calchi inglesi per una questione di prestigio linguistico.
Questo non avviene però con parole legate al genere femminile, e ne sono la prova tutte le opinioni contrarie all’introduzione dell’uso di parole che designano ruoli professionali di alto livello come ministra, avvocatessa, magistrata (ma esistono da sempre maestra, infermiera, commessa ecc.), considerate come cacofoniche a dispetto dei neologismi “scannare” (da to scan), “addare” (da to add) che nessuno ha mai considerato inutili e poco armoniosi.
La lingua italiana è davvero ricca al livello morfologico e non ha quindi bisogno della specificazione di genere, come invece accade in lingue come l’inglese. Dunque, accade che la discussione riguardo alla declinazione al femminile si sposta su qualcosa che va oltre la semplice lingua: la cacofonia, l’inutilità. A chi lamenta della poca naturalezza della parola “ministra”, ritenendo più opportuna l’espressione “ministro donna” si potrebbe chiedere se direbbe mai “direttore uomo”.
I nomi di mestieri e professioni che hanno una desinenza femminile e che a oggi fanno parte del nostro vocabolario quotidiano designano un’attività di basso o medio livello, mentre si registra una resistenza ad adottare questa stessa desinenza per professioni di alto livello.
Ruoli e grammatica
Nella caotica questione delle opinioni sulla correttezza del genere da usare, spiccano le opinioni contrarie all’uso di sindaca, ministra, procuratrice, ritenute una specificazione di genere inutile, incisiva e per qualcuno provocatoria. Nonostante già agli albori della discussione, i più esperti linguisti hanno garantito la correttezza dell’uso dei nomi al femminile di mestiere e professione, le resistenze sono state e sono forti anche da parte delle stesse donne.
Queste, avendo raggiunto una qualifica di alto livello rifiutano di farsi appellare al femminile in nome della parità di genere. Ritorna l’interrogativo posto precedentemente. Chi chiamerebbe “maestro” una maestra solo perché il ruolo professionale è il medesimo?
Il rifiuto dell’appellativo di genere rivendica il successo per avercela fatta, nonostante l’essere donna, dimostrando di fatto un’asimmetria di ruolo.
A tutto ciò, l’autorevole Accademia della Crusca ha semplicemente invitato i parlanti ad applicare le regole comuni della flessione grammaticale, sottolineando che, in qualità di istituzione, il fatto di non dover specificare lo stesso invito per i mestieri di basso profilo dimostra un’assenza di coscienza linguistica di genere.
Verso una nuova educazione linguistica
Quanto detto finora è confermato anche dai materiali scolastici che hanno il delicato compito di creare un’educazione linguistica.
Tra questi c’è ancora un uso e abuso del genere maschile come se fosse un neutro. Nei libri scolastici si registra una forte occorrenza di frasi stereotipate come “La cuoca prepara il pranzo”, “La maestra spiega la lezione” e un uso del maschile neutro in frasi come “L’architetto progetta la casa”, allegando di fianco un’immagine che rappresenta una donna che di fatto è… un’architetta.

La stampa e le istituzioni tutte hanno il dovere di far emergere e diffondere la grammatica di parità, come viene definita dagli specialisti. E non sarà un caso che le attuali generazioni di studenti siano molto più aperte nell’uso del femminile rispetto alle generazioni passate.
L’uso fa legge
Di fatto, dal momento dell’elezione della sindaca Raggi qualcosa è cambiato. Oggi, a eccezione di qualche conservatore, si è allargato l’uso dell’appellativo di ruolo al femminile. Si registrano forme oscillanti, poste al maschile e al femminile, per la professione di sindaca e di ministra; forme ancora lontane dall’accettazione come “avvocata” / “avvocatessa” (entrambe accettate dall’Accademia della Crusca) e altre ormai stabilmente in uso come “senatrice”.
Questo risultato vale come dimostrazione del fatto che la società la fanno (anche) i parlanti, che dovrebbero essere consapevoli della reale forza intrinseca delle parole.
Il giornalista Stefano Bartezzaghi scrisse su L’Espresso (1 agosto 2016) un articolo dal titolo Sindaca, ministra e le obiezioni ridicole, nel quale affermava:
«si incontrano quelli che obiettano che «ministra» fa pensare alla «minestra» e «architetta» alla «tetta». […] È anche diffusa l’opinione per cui queste sarebbero parole «brutte», non nel senso di «volgari» ma nel senso di «sgraziate». Per quanto immotivato, il sentimento popolare verso le parole ha una forza non trascurabile. Ci vuole dunque pazienza e molte più donne in posizioni considerate tradizionalmente maschili. L’abitudine, quando ce la si farà, renderà ridicola ognuna di queste obiezioni.»