Censura divina: l’Inquisizione e l’Indice

NASCITA DELLA STAMPA E DELLA SUA CENSURA – L’invenzione della stampa introdusse la produzione meccanica dei libri, cambiando completamente il mondo della scrittura. Non solo in meglio. Il manoscritto non scomparve immediatamente però, anzi continuò a esistere fino al Settecento dando luogo a forme di convivenza tra scrittura e meccanica e manuale. Con il manoscritto l’autore era direttamente collegato al lettore; la stampa invece inserì tra le due figure un macchinario complesso e costoso e dunque una terza figura: un intermediario fortemente interessato all’opera e alla sua diffusione, tanto da investirci del capitale.

La possibilità di stampare un’opera permetteva al testo una diffusione senza precedenti. Questo cambiamento epocale spinse tutti i grandi poteri d’Europa a creare l’istituto del permesso di stampa: prima di essere pubblicato, un libro doveva essere visionato da un magistrato avente la facoltà di concedere il permesso, di negarlo o di richiederne delle modifiche. I manoscritti quindi dovevano ricevere un attestazione di non contenere concetti contrari alla religione e al principe. Era nata la censura.

Ogni Stato europeo si dotò di un suo organo di censura, con modalità e competenze che variavano in maniera per niente marginale tra uno e l’altro. Nell’Italia divisa in numerosi Stati regionali, si venne a creare una situazione del tutto particolare. Oltre alla magistratura dei singoli Stati vi era affiancata quella autonoma della Chiesa, in un complicatissimo intreccio di relazioni, normative e poteri. L’influenza della religione negli organi di censura era molto importante, anche negli altri Paesi europei, ma solo in Italia essa ebbe un carattere strettamente politico. L’inquisizione ebbe il potere di esercitare sia la censura preventiva sia quella successiva nonché di esaminare ogni manoscritto che aspirasse alla stampa, esercitando la propria attività fino alle riforme di metà Settecento.

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Francisco Goya, Tribunale dell’Inquisizione, 1814.

DAGLI ALL’ERETICO – Il rapporto tra la Chiesa e la proibizione dei libri aveva radici molto profonde, che risalivano a molto prima della stampa: passando sia per la proibizione di quei testi ritenuti eretici o che andavano contro i dogmi, che per il semplice rifiuto della lettura profana considerata come una dispersione mondana e una tentazione della carne. Questo giudizio, nato dalla riflessione monastica, era ancora vivo e ampiamente condiviso nel Cinquecento. Un terzo, ma non meno importante fattore per comprendere la censura cattolica, fu rappresentato dalla disposizione filosofica del credere cristiano, quell’opera di interpretazione del racconto biblico secondo la teoresi greca. Furono considerate come eretiche tutte quelle filosofie che presentavano, o dalle quali si potevano desumere, concetti difformi da quelli utilizzati dalle definizioni dogmatiche.

Il V Concilio lateranense (1512-1517), voluto da Papa Leone X, costituì il vero e proprio spartiacque nell’evoluzione del discorso ecclesiastico sulla stampa. Esso istituì definitivamente l’obbligo di lettura dei manoscritti da parte dell’inquisizione e del vescovo. L’istituto dell’imprimatur (la certificazione pubblica della conformità del pensiero dell’autore agli insegnamenti della Chiesa cattolica, a oggi ancora esistente ma solo su richiesta stessa dell’autore) fu applicato invece raramente nel periodo successivo alla riforma, e andò a regime soltanto nella seconda metà del XVI secolo, grazie al coinvolgimento delle strutture dell’inquisizione.

Nei suoi primi anni di vita la censura ecclesiastica non fu particolarmente incisiva, limitandosi a concedere i permessi di stampa agli editori, la protezione accordata all’investimento di uno stampatore attraverso il divieto fatto ad altri di riprodurre lo stesso testo per un certo numero di anni. Il privilegio era strettamente collegato all’imprimatur che, trovandosi così collegato a un interesse dello stampatore, non aveva bisogno di un apparato di sorveglianza.

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Carta d’Europa mostrante la diffusione della Riforma (e delle religioni di maggioranza per territorio) nel 1598. A risoluzione piena qui. (Wikipedia)

PROTESTANTI E INQUISITORI – L’emergere della Riforma cambiò tutto. Gli scritti di Lutero cominciarono a diffondersi in Italia nel 1519 e l’anno successivo arrivarono la scomunica da parta di Leone X e la condanna dei suoi scritti, con relativa minaccia di scomunica per tutti coloro che li avessero letti, diffusi o semplicemente posseduti. Se i riformatori tedeschi usarono abilmente la stampa come mezzo di diffusione del loro credo, la Chiesa dedicò al libro un’attenzione uguale e contraria. I controlli però non erano ancora organizzati e, fino alla fine degli anni Quaranta del secolo, i libri della riforma continuavano a circolare.

Per porre rimediò alla situazione e bloccare definitivamente il progredire della riforma protestante, in Italia fu fondata la Congregazione Romana del Sant’Ufficio della Romana ed Universale Inquisizione. Per raggiungere il suo scopo emanò un editto (1543) che proibiva di vendere libri senza prima averne presentato un indice al Sant’Ufficio medesimo o a un delegato, e avocava agli inquisitori la concessione dell’imprimatur. La censura veniva in questo modo posta alle dipendenze dell’inquisizione e dei suoi delegati periferici. Non erano solo i testi luterani, però, a essere oggetto di divieto: la condanna a essi si tirò dietro anche tutti quei testi che contenevano “errori” in materia di costumi e morale. Tutta la materia libraia era quindi finita sotto la gestione del Sant’Ufficio appoggiato alla rete degli inquisitori e, in mancanza di essi, ai vescovi.

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Titolo dell’Indice dei libri proibiti, nella sua edizione del 1564 (particolare). (Wikipedia)

L’INDICE – La misura intrapresa non ebbe effetto immediato, tanto che gli scritti eretici conobbero in quegli stessi anni la loro massima diffusione. Nel 1547 e il 1552 avvenne però un cambiamento di rotta che cambiò per sempre la situazione ecclesiastica, togliendo ogni spiraglio di dialogo tra le diverse fedi cristiane, con la condanna della teologia luterana sancita dalla fine dei lavori concilio di Trento e l’assegnazione dei domini italiani al ramo spagnolo dell’eredità asburgica. Al riparo dai mutamenti politici di quegli anni, presero avvio i processi contro gli eretici e la caccia al libro protestante.
Nel 1550 il Sant’ufficio fece incetta di libri protestanti e tre anni dopo condusse a termine un proprio catalogo di quelli proibiti. In questo Indice erano presenti anche i libri ebraici, oltre alla consueta condanna di quelli protestanti.

L’Indice dei libri proibiti era formato solo in parte dalla lista dei libri da condannare. Esso era principalmente un sistema di regolazione della stampa e della lettura, costituito da un insieme di procedure, un sistema penale e un complesso di potere in grado di controllare sia l’uno che l’altro. L’elezione nel 1555 di papa Paolo IV, un intransigente determinato a cancellare la circolazione dei libri protestanti e a eliminare il dissenso verso la monarchia ecclesiastica, fu il punto di svolta della formazione istituzionale dell’Indice, che, insieme al pontefice, compì in quegli anni le sue scelte essenziali. Innanzitutto venne inasprito il sistema penale. La scomunica divenne la pena per gli eretici, gli scismatici e chiunque avesse detenuto in casa, stampato, diffuso in qualche modo o semplicemente letto senza autorizzazione, i libri messi all’Indice. Solo gli inquisitori avevano il potere di assolvere coloro che venivano accusati di tali crimini.

Le resistenze furono molteplici, soprattutto dalla Repubblica di Venezia e dalla Compagnia di Gesù, ma furono vane. L’Indice non solo non venne alleggerito, ma anzi fu inasprito inserendo al suo interno anche gli scritti definiti come “superstizione” – astrologia, magia, divinazione e forme popolari di intendere la religione – ciò che nella letteratura era considerato “inutile”, peccaminoso o anticlericale, ciò che nella filosofia era considerato “falso” e infine ciò che nel diritto era contrario alla autorità pontificia. Le condanne più famose furono quelle ai danni del Talmud, la Bibbia in volgare, le opere di Erasmo da Rotterdam e Machiavelli (filosofie come quelle atomistiche o cartesiane erano già state bandite da tempo).

Le monarchie nazionali, più forti e organizzate rispetto ai deboli Stati regionali italiani, e dunque più istituzionalmente efficienti, poterono gestire l’Indice da sé e senza dipendere da Roma. In Italia invece prevalse l’iniziativa papale e una specifica forma di censura di inquisizione. Solo i due Stati rimasti autonomi (Firenze e Venezia) riuscirono a porre una certa resistenza. Inoltre, nel corso degli anni, finirono all’Indice tutti quegli scritti politici che promuovevano la sovranità e la giurisdizione civile.

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Francisco Goya, Tribunale dell’Inquisizione, 1814.

RAZIONALIZZAZIONE GIURIDICA E INASPRIMENTO – L’Indice preparato durante il Concilio di Trento fu completato da papa Pio IV nel 1564. Il sistema penale venne riordinato e razionalizzato, differenziando con chiarezza due livelli del libro proibito. La prima, quella dei libri eretici, fu compiutamente criminalizzata, mentre i libri della seconda classe, detti “espurgabili” – da errori morali o da marginali errori dottrinali – furono soprattutto colpevolizzati. La nuova disposizione precisava dunque che solo i libri della prima classe fossero punibili con la scomunica, tramite un processo gestito direttamente dall’inquisitore. La seconda classe di libri invece veniva affidata al vescovo e al suo sistema penitenziale.

Per alleggerire il lavoro degli inquisitori, nel 1572 fu creato un nuovo ufficio cardinalizio dedicato specificatamente alla censura: la Congregazione dell’Indice. Essa aveva il compito di tenere aggiornato la lista dei libri proibiti e curarne l’applicazione, fu chiamata anche ad amministrare il complesso sistema di norme accumulate dai tempi del V Concilio. La prima classe dell’Indice non conteneva titoli di opere ma una lista di autori, i cui scritti erano considerati eretici senza alcuna possibilità di espurgazione. Il giudizio in pratica non era sui testi e i loro contenuto, bensì sulle persone che gli avevano scritti, prerogativa però riservata soltanto al papa e agli inquisitori.

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Il filosofo e monaco Giordano Bruno (1548 – 1600) morì al rogo in Campo de’ Fiori a Roma per le sue idee filosofiche e la sua interpretazione della Bibbia. Quella che sorge oggi in suo onore, proprio nel punto in cui fu arso vivo, è in realtà la seconda. Mazzini ne aveva infatti eretto una prima, poi distrutta da Pio IX, durante la breve esperienza della Repubblica romana.

(DIS)EQUILIBRIO TRA POTERI – Il problema dell’Indice e della censura ecclesiastica risiedeva nel fatto che, a ogni cambio di pontefice, mutavano anche le norme e le modalità di attuazione. Le opere condannate potevano essere considerate da un papa come eretica e da quello successivo come espurgabili e viceversa, generando problemi difficili da risolvere e che, qualora fossero stati invece risolti, potevano ripresentarsi con il pontefice successivo. Non sorprende dunque che la congregazione dell’Indice e il Sant’Ufficio fossero perennemente in competizione sulle loro competenze, sebbene il secondo godesse di un’autonomia molto maggiore e di poteri decisionali superiori riguardanti le condanne per eresia e il riconoscimento degli eretici. Questi poteri vennero sfruttati per limitare al massimo le competenze della Congregazione. I poteri dei vescovi infine dovevano rimanere circoscritti entro i confini del libro non eretico, mentre i libri omnio prohibiti dovevano essere consegnati direttamente all’inquisitore per il rogo.

Clemente VIII riprese la linea tracciata dal Sant’Ufficio, in maniera definitiva, il 29 gennaio 1600. La dichiarazione clementina basò la distinzione tra Indice e Sant’Ufficio non sulla differenza tra competenza sui libri e competenze sulle persone, ma sulla riserva del Sant’Ufficio in materia di eresia, fosse essa connessa con i libri o con le persone. Questa differenziazione distribuì definitivamente la censura su due livelli: uno inferiore, attribuito all’Indice, e uno superiore, attribuito al Sant’Ufficio.

L’istituzione dell’Indice fu un blocco insormontabile per lo sviluppò della cultura italiana. Per i lettori significò che la lettura di tutti i testi contenuti nella lista dei libri proibiti era pericolosa e poteva essere condotta solo a proprio rischio. Per gli stampatori significava che i libri contemplati in un qualunque modo nell’Indice divenivano un investimento pericoloso. Certo ci fu il contrabbando e l’Indice non riuscì mai a coprire la totalità dei libri stampati, ma si trattava quasi sempre di libri di poco valore.

La censura ecclesiastica perderà in maniera lenta ma costante la sua importanza a partire dall’Illuminismo, ma fu soltanto con l’unità d’Italia che abbandonerà per sempre e in maniera definitiva il suo valore giuridico.

Fonti cartacee:

  • Vittorio Frajese, La censura in Italia: Dall’Inquisizione alla Polizia, Editori Laterza, 2014.

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