Il libero arbitrio esiste? Questa domanda attanaglia la mente degli esseri umani da tempo immemore e in molti hanno provato a darvi risposta: da Sant’Agostino a San Tommaso, da Cartesio a Leibniz, chi con una risposta religiosamente altissima, chi con il ricorso alla pura e semplice logica. Nel 1977 il neuroscienziato Benjamin Libet tentò un diverso tipo di approccio, cercando di capire se il libero arbitrio fosse, innanzitutto, “fisiologicamente” possibile.

Benjamin Libet e il Bereitschaftpotential
Benjamin Libet (1916-2007) è stato un ricercatore presso il Dipartimento di Fisiologia della University of California, San Francisco. Dagli anni Settanta si è dedicato alla conoscenza dell’attività neurologica dell’essere umano e, più nello specifico, allo studio della soglia percettiva, ossia il limite sotto il quale l’organismo non percepisce stimoli. I suoi esperimenti tesero presto a focalizzarsi sulla quantità di stimolo necessaria per scatenare una reazione volontaria e conscia da parte di un essere umano.
Queste furono le basi del suo esperimento più noto, che nel 2003 gli valse un Virtual Nobel Prize in Psicologia dall’Università di Klagenfurt. Libet approfondì gli studi dei suoi omologhi Kornhuber e Deecke sul cosiddetto Bereitschaftpotential, o potenziale di prontezza motoria (PPM). Il PPM è la misura dell’attività elettrica rilevabile in certe parti del cervello (la corteccia motoria e l’area motoria supplementare) quando è necessario compiere un movimento.
Nel 1965 i due ricercatori tedeschi condussero una serie di esperimenti, limitati sia dalla disponibilità pratica che dalla tecnologia dell’epoca: riuscirono, in ogni caso, a misurare i cambiamenti nell’attività cerebrale appena antecedenti alla messa in atto di movimenti volontari delle dita. Poterono registrare due diversi picchi nell’elettroencefalogramma, che precedevano l’avvenire del movimento vero e proprio rispettivamente di 1,2 – 0,5 secondi e 0,5 – 0 secondi; attraverso il ricorso a una serie di test di controllo ed eliminando i falsi positivi, Kornhuber e Deecke identificarono in modo chiaro l’entità del loro Bereitschaftpotential e resero noti gli importanti risultati alla comunità scientifica.

L’esperimento
Libet non impiegò molto tempo a intuire le conseguenze che l’entità del potenziale di prontezza motoria potessero avere sulla definizione del libero arbitrio. Nel 1977 diede luogo al suo esperimento, al fine di stabilire se esistesse una differenza temporale tra l’inizio del PPM e la realizzazione, da parte del soggetto, di voler compiere quell’azione.
In primo luogo, a Libet serviva un modo per rilevare questi elementi in maniera oggettiva. Oltre all’utilizzo di elettroencefalografo (EEG) ed elettromiografo (EMG) per misurare l’attività elettrica del cervello e dei muscoli, il ricercatore si dotò di un oscilloscopio appositamente modificato. Lo strumento, atto a misurare ampiezza e frequenza dei segnali elettrici, restituisce normalmente un grafico in forma di onde. Libet ne modificò l’output in modo che l’oscilloscopio mostrasse un puntino che si muoveva a velocità costante e in maniera circolare sul monitor: questo era un quadrante marcato da appositi segni a intervalli regolari, come un orologio. Il tutto era necessario per ottenere una misura il più precisa possibile: infatti, il puntino sullo schermo si muoveva da un segno all’altro in 43 millisecondi.

L’esperimento fu condotto come segue: un soggetto era posto di fronte al monitor, mentre ne venivano misurate le attività cerebrali e muscolari attraverso EEG ed EMG. Gli veniva dunque chiesto di reagire (muovendo un dito o premendo un pulsante) non appena il puntino, in continuo movimento circolare, raggiungesse uno dei segni sullo schermo. L’EMG, che registra l’arrivo dell’impulso elettrico al muscolo, segnava il momento 0 e l’avvenire dell’atto vero e proprio. L’EEG, come già nei test di Kornhuber e Deecke, serviva in questo caso a rilevare il PPM e l’inizio della fase “pre-movimento”, attestata sperimentalmente a -0,5 secondi.
Fino a qui, si riproduceva in sostanza quanto riportato dai due tedeschi: se non fosse che la sperimentazione più approfondita di Libet e colleghi mostrò un risultato sorprendente. L’EEG mostrava l’attività cerebrale corrispondente alla presa di coscienza del movimento non come concomitante con l’inizio del PPM (-0,5 secondi), ma come successiva, a -0,2 secondi.
In sostanza, tra l’inizio della preparazione al movimento e la presa di coscienza di esso si registrò una differenza di 0,35 secondi. Il cervello del soggetto si predisponeva al movimento prima che questi intendesse davvero compierlo.

Conseguenze e critiche
Le osservazioni dell’esperimento di Libet erano corrette: un possibile margine di errore era calcolato entro i 50 millisecondi, non influendo quindi sull’entità dei risultati.
Quanto Libet riportò nel suo studio fu certamente sconvolgente per tutto l’ambito delle neuroscienze: tra le reazioni, vi fu chi – come Susan Blackmore – ridusse il libero arbitrio a un “effetto collaterale” delle funzioni neuronali, poiché il tempo necessario a “negare” un’azione è troppo basso per poter evitare coscientemente di compiere il movimento una volta presane coscienza. Non volendo osare tanto, Libet si riferisce a questo atto come “potere di veto”, ossia la volontà di trattenersi da un atto che si sta per compiere che tutti hanno provato almeno una volta nella propria vita. Fermo restando il fatto che la volontà stessa dell’azione sia antecedente a una simile decisione del soggetto.
Chi si dimostrò più critico – come Daniel Dennett – attribuì l’esistenza della differenza alla percezione quasi istantanea del movimento del puntino, data dalla luce che giunge alla retina. In un certo senso, secondo Dennett, l’arrivo al cervello del segnale luminoso genera di per sé un’elaborazione interiore, compiuta dall’individuo ben prima che il PPM inizi a giocare la sua parte. Si chiede Dennett: dove si trova l'”io” vero e proprio? Solo nelle aree cerebrali deputate al movimento, o in tutto il resto dell’organo? Questa interpretazione non nega quindi l’esistenza del libero arbitrio.
Più generalmente, nonostante i risultati di Libet siano stati confermati e ampliati più di recente, occorre sottolineare come le neuroscienze siano ancora oggi una materia fortemente empirica, dove l’elemento sperimentale è l’unico modo per ottenere risposte da un organo, il cervello, il cui funzionamento risulta ancora estremamente oscuro alla nostra conoscenza. Come si può osservare la differenza temporale rilevata da Libet, non si è nemmeno in grado di poter affermare che il nostro cervello non disponga di meccanismi apparentemente autonomi, ma direttamente intrecciati con la volontà proveniente dalla nostra coscienza, in modi che appaiono invisibili.
Fonti cartacee:
- B. Libet, Mind Time. The Temporal Factor in Consciousness, Harvard University Press, 2004.
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