Politically correct: come giustificammo l’apartheid

Apartheid è una parola che significa “separazione”. Con questo termine si indicava la politica di rigida segregazione razziale applicata in Sudafrica dal 1948 al 1990, che permise alla minoranza bianca del Paese di imporre il proprio dominio sulle altre etnie presenti nello Stato (neri, indiani e meticci). Molti credono che l’apartheid fosse ufficialmente giustificata perché i bianchi si ritenevano superiori alle altre razze. In realtà la giustificazione culturale alla segregazione razziale fu molto più sottile di quanto si pensi.

IL CONTESTO SUDAFRICANO, IN BREVE – In primo luogo è necessario fare un breve excursus sulla complessa storia del Sudafrica. Per lungo tempo le sue pianure, caratterizzate da un clima caldo a nord che diventa sempre più mite man mano che ci si avvicina al Capo di Buona Speranza, furono contese fra le diverse tribù africane: i san, i bantu, gli zulu e gli xhosa, che in epoche diverse migrarono nel territorio. A questo scenario già complesso si aggiunsero poi gli europei. Prima i portoghesi e poi gli olandesi. Questi ultimi iniziarono a costruire grandi fattorie sfruttando il fertile suolo sudafricano per l’agricoltura e l’allevamento. Dall’olandese boer (“contadino”) deriva il termine “boero” con cui poi vennero identificati i discendenti dei primi coloni. Anche l’afrikaans, ancora oggi lingua parlata da molti sudafricani come prima lingua, è l’evoluzione dell’olandese parlato dai boeri.

Nel XIX secolo si affacciarono anche gli inglesi. Fra inglesi e boeri scoppiarono guerre feroci. I boeri inizialmente emigrarono verso nord (un esodo noto come Grande Trek) dove fondarono piccole repubbliche indipendenti. In seguito gli inglesi riuscirono ad estendere il loro dominio anche sulle repubbliche boere e unificarono il Sudafrica in una sola colonia. La forte resistenza boera riuscì più volte a mettere in difficoltà il dominio britannico tanto che dopo poche decadi, nel 1910, il Sudafrica diventò un dominion dell’Impero britannico; il Paese ottenne una parziale indipendenza pur restando nell’ambito del Commonwealth. I sudafricani combatterono al fianco degli inglesi nelle due guerre mondiali anche se molti boeri non nascosero le loro simpatie verso il nazismo. Nel 1948, il National Party vinse le elezioni e iniziò ad approvare le prime leggi razziali contro i neri. Tutti i non-bianchi furono privati di molti diritti civili, furono vietati i matrimoni misti, furono istituite apposite zone nelle città dove i neri non potevano accedere.

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Hendrik Frensch Verwoerd (1901-1966), l'”architetto dell’apartheid”. (Getty Images/Bob Gomel)

L’APARTHEID COME “POLITICALLY CORRECT” – Principale architetto dell’apartheid fu Hendrik Frensch Verwoerd, che governò il Paese come primo ministro dal 1958 al 1966. Soprannominato Dr. Verwoerd o anche the doctor dai media locali, Verwoerd si trovò di fronte ad un problema nuovo. Fino alla fine degli anni Cinquanta, le politiche di segregazione razziale – specialmente verso le persone di colore – non erano un’esclusiva del Sudafrica. Erano anzi la prassi in quasi tutte le nazioni multietniche: pensiamo ad esempio a quanto accadeva nello stesso periodo nel sud degli Stati Uniti. In quei decenni iniziò però una graduale presa di coscienza contro il razzismo, e l’opinione pubblica mondiale iniziò a giudicare sempre con maggior ostilità le politiche di separazione razziale. Molte colonie africane, inoltre, si stavano avviando sulla strada dell’indipendenza e iniziavano ad avere un discreto peso diplomatico. Verwoerd si trovò di fronte ad un mondo che non avrebbe più tollerato l’apartheid.

Fu allora che si iniziò a presentare l’apartheid come qualcosa di positivo e che non aveva nulla di razzista. Si cercò di mostrare l’apartheid come qualcosa di politicamente corretto. Verwoerd iniziò a sostenere pubblicamente la necessità che tutte le etnie del Sudafrica avessero la possibilità di vivere e prosperare secondo la propria cultura e la propria tradizione. I bianchi (che da quel momento iniziarono ad essere chiamati “europei”) secondo le tradizioni occidentali, gli xhosa secondo le tradizioni xhosa, gli zulu secondo le tradizioni zulu e così via. Era necessario evitare la contaminazione per evitare che una cultura perdesse i propri aspetti e si snaturasse. Il Sudafrica fu diviso in zone: le città avevano i quartieri bianchi e i quartieri neri, il Paese stesso fu diviso in aree e fu stabilito che ogni tribù vivesse nella propria area: le regioni destinate ai neri presero il nome di bantustan. Si immaginava un graduale passaggio per cui alla fine ognuno avrebbe vissuto nel proprio compartimento stagno, libero di vivere come avevano vissuto i propri antenati. Ai neri venne vietata la frequentazione di scuole e università perché nelle antiche tribù, appunto, non vi erano scuole e università. Verwoerd affermava che “l’istruzione di un bantu deve svolgersi completamente nella tribù ed avere radici nello spirito e nell’essenza stessa della nazione bantu”.

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La “mappa razziale” del Sudafrica negli anni Settanta. (Central Intelligence Agency)

SOTTO LA MASCHERA… – Dietro questa patina liberal si nascondeva ben altro. La divisione del territorio non fu equa: le regioni più fertili o ricche di giacimenti di oro e diamanti rimasero ai bianchi. I bianchi si presero le grandi città, le proprietà delle aree industriali e di tutte le aziende. Poiché la politica era una tradizione europea, i bianchi mantennero il controllo delle istituzioni politiche nazionali. I bantustan erano, invece, territori spesso poveri, dove non c’erano risorse. Inoltre imporre le tradizioni tribali non era così facile: molte persone di colore non vivevano più come i loro antenati e non lo facevano più neanche i loro genitori e i loro nonni. Tanti trasferiti a forza nei bantustan poi rientravano nelle città dove potevano trovare lavoro e dove avevano sempre vissuto. La segregazione inoltre non si applicò ai luoghi di lavoro: i neri continuarono a lavorare nelle miniere e nelle fabbriche dei bianchi anche se il lavoro in miniera o in fabbrica non era certamente una loro tradizione del passato!

Verwoerd riuscì a trovare alleati anche fra alcuni leader neri che accettarono la politica dei bantustan. Alcuni di essi ottennero anche l’indipendenza, che però non fu mai riconosciuta da nessun altro Stato. La sua ferma politica anti-comunista gli garantì il sostegno degli Stati Uniti e con l’accusa di comunismo furono sciolte tutte le organizzazioni politiche e sindacali dei neri, compreso l’Anc di un allora giovane avvocato Nelson Mandela, che proprio in quegli anni veniva incarcerato e condannato all’ergastolo.

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L’assassinio di Verwoerd riportato sul The Cape Argus del 6 settembre 1966. (Alamy)

L’EPILOGO – Nel 1966 Verwoerd fu assassinato in Parlamento da un addetto alle pulizie. Gli furono tributati grandi onori e una città venne chiamata col suo nome. I suoi successori proseguirono rigidamente sulla politica dell’apartheid, ma dovettero affrontare la crescente opposizione interna e internazionale all’apartheid. Furono questi gli anni delle grande proteste, puntualmente represse dalla polizia con migliaia di morti, di Steve Biko, di Desmond Tutu, della rivolta di Soweto. Furono gli anni del boicottaggio sportivo contro il Sudafrica. Alle squadre e agli atleti del Paese fu vietata la partecipazione a qualsiasi evento fuori i confini. I colori sudafricani non furono più visti in nessuna manifestazione: Mondiali, Olimpiadi, gare. La locale squadra di rugby, fortissima, negli anni Settanta riuscì a compiere ancora delle partite in Australia e in Nuova Zelanda, ma poi le pressioni politiche spinsero anche le federazioni di rugby dei due Stati ad unirsi al boicottaggio.

Il regime crollò fra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, quando prevalse l’ala moderata del National Party. De Klerk, nuovo presidente, avviò una graduale politica di smantellamento dell’apartheid che si concluse definitivamente nel 1994 con la vittoria elettorale di Nelson Mandela nel corso del primo voto aperto a tutti.

Fabio Brinchi Giusti
Sono nato nel 1990, laureato in Scienze Politiche alla Sapienza di Roma. Ho scritto per giornali locali e nazionali fra cui Donna Moderna, Linkiesta, Next Quotidiano e altri.

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13 Giugno 2019 6:15 pm

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