Un dipinto rubato in pieno giorno, in orario di apertura al pubblico, a distanza di poche settimane dal precedente e analogo furto: è successo in Emilia Romagna, il 28 febbraio scorso nella piccola Pinacoteca di Faenza e poi di nuovo il 10 marzo nella centralissima Bologna.
Non è certamente la prima volta: dal furto leggendario della Natività di Caravaggio nel 1968 all’ultima rocambolesca avventura delle opere del Museo di Castelvecchio a Verona si contano innumerevoli furti di opere d’arte.
Nonostante i continui appelli lanciati dai musei è solo in queste occasioni, quando ormai è troppo tardi, che ci si interroga davvero sui sistemi di sicurezza, su chi si occupa delle indagini e del recupero delle opere sottratte e sul mercato sul quale queste opere vengono vendute, se e quando riescono ad uscire dall’Italia.
ATTENZIONE AL PICCOLO FORMATO – Quando il custode ha aperto le sale della piccola Pinacoteca Comunale di Faenza lo scorso lunedì 26 febbraio, ha notato che tra i dipinti figurava una cornice vuota. Doveva contenere la Crocifissione e Discesa al Limbo di un maestro anonimo del Duecento – chiamato appunto il Maestro di Faenza, di dimensioni 35 x 28 cm, poco più di un foglio A4. Piccola e semisconosciuta, eppure preziosa perché quasi unica nel suo genere, tanto che il suo valore è stimato tra i 200.000 e i 300.000 euro.
Non era l’unico capolavoro ospitato in Pinacoteca, che vede tra le sue sale anche una scultura lignea di Donatello, un dipinto di Giovanni Fattori e due bronzi di Auguste Rodin. Ma il Donatello è a grandezza naturale, il Fattori è forse troppo bucolico, e i Rodin troppo voluminosi: Il ladro ha preferito orientarsi su una tavoletta tanto sconosciuta ai più quanto più sicura. Il quadretto duecentesco si prestava benissimo ad essere portato via: una borsa grande, un porta-computer, e il gioco è fatto.
Anche il dipinto sottratto a Bologna aveva dimensioni simili, solo di poco più piccolo, 28 x 19 centimetri. Attribuito da Roberto Longhi a Giusto de’ Menabuoi, un singolare pittore giottesco fiorentino poi trasferitosi a Padova, faceva parte della collezione del critico d’arte Francesco Arcangeli prima di essere trasferito sulle pareti della Pinacoteca, nel 2003.
Entrambi i dipinti sono stati sottratti durante l’orario di apertura da qualcuno che è entrato regolarmente nei musei, è sfuggito al personale di sorveglianza, ha staccato indisturbato le opere dalla parete, le ha nascoste da qualche parte ed è uscito. Non un allarme, non una traccia e nemmeno un sospetto.
Se dal piccolo museo di Faenza ci si può forse aspettare che manchi di un sistema di videosorveglianza – d’altro canto non ci sono nemmeno i soldi per supportare l’apertura nei giorni feriali – suona più strano che questo accada nella Pinacoteca bolognese, che è inserita tra i musei nazionali ed è custode di diversi capolavori.
E infatti il sistema di videosorveglianza a Bologna in realtà esisteva ed era attivo, ma a quanto pare la telecamera era puntata esclusivamente sul grande polittico di Giotto che dà il nome alla saletta in cui è avvenuto il misfatto.
E i sorveglianti? Un po’ più attenti rispetto a Faenza, ma non abbastanza: se ne sono accorti il giorno stesso e hanno immediatamente chiamato Carabinieri e Polizia Scientifica, ma i risultati sono stati scarsi, pare, almeno fino ad ora.
GUARDIE E LADRI – Poiché entrambi i dipinti sono stati portati via in pieno orario di apertura al pubblico, risulta chiaro che queste opere versavano in uno stato se non di abbandono, quantomeno di solitudine: evidentemente al momento del furto non doveva esserci nessun altro visitatore.
C’erano i sorveglianti, è vero, ma i fatti dimostrano che se non è aiutata da un afflusso di pubblico costante o da qualche sistema elettronico, la sola figura del sorvegliante ha scarsa efficacia.
Esiste in commercio ogni tipo di sistema d’allarme: alcuni sono programmati per scattare quando si entra nell’area di sicurezza dell’opera, altri registrano le variazioni di peso – nel caso di opere plastiche appoggiate a un piedistallo – di pressione e di movimento nel caso di dipinti appesi alle pareti. Qualcuno, per risparmiare, ha pensato anche di dotare i dipinti di un semplice codice a barre e di porre dei rilevatori all’uscita del museo, un po’ come al supermercato.
A quanto pare, però, nessuno di questi metodi è adottabile dai musei allo stato attuale, soprattutto se sono piccoli e poco visitati. Il motivo è come sempre la mancanza di fondi: i sistemi hanno un costo molto alto e l’applicazione di qualsiasi corpo estraneo su un manufatto antico richiederebbe attenzione e studio e quindi costi di personale.
Avete presente i metodi complicatissimi escogitati da Audrey Hepburn e Peter O’Toole in How To Steal a Million? Dimenticateli: rubare un’opera dalla maggioranza dei musei italiani sarebbe molto più banale.
IL NUCLEO PER LA TUTELA E IL 1968 – Le cose diventano molto più serie non appena scatta la denuncia di furto. La pratica passa infatti in mano a un nucleo speciale dell’arma dei Carabinieri, il Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC), che risponde direttamente al Mibact. Il personale del Comando è formato appositamente per essere in grado di riconoscere le opere d’arte sottratte, distinguere gli originali dai falsi e naturalmente applicare ogni comma del Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici del 2004.
La prima e più importante operazione in capo al nucleo è quella di inserire i dati e le fotografie dell’opera rubata in una banca dati internazionale collegata all’Interpol. Condividere più informazioni possibile con le forze di polizia di più nazioni possibile aumenta le probabilità di riconoscere l’opera rubata qualora fosse ritrovata in un altro Paese.
Il resto delle forze i Carabinieri le impiegano nel riconoscimento degli innumerevoli falsi d’autore messi in commercio per falsare le oscillazioni del mercato, in operazioni di rimpatrio delle opere o in indagini sugli scavi archeologici illegali, che pare essere una pratica piuttosto diffusa in Italia (ne hanno scoperti circa 21 nel 2015, 14 nel 2016)
Il Comando TPC vanta il primato di fondazione in Europa, in termini di tempo: fu infatti fondato nel febbraio 1969, precedendo di un anno la raccomandazione ufficiale dell’UNESCO di dotarsi di misure militari per contrastare il mercato illecito di opere d’arte.
La fondazione del nucleo non impedì tuttavia che nello stesso anno si compisse uno dei furti più eclatanti della storia d’Italia: nell’ottobre del 1968 fu rubata da una chiesa di Palermo la grande tela raffigurante la Natività di Caravaggio, stimata ora oltre 30 milioni di euro.
Chi fosse il mandante di questo furto così clamoroso era chiaro fin dall’inizio ed è stato confermato dalle deposizioni di diversi pentiti: la Mafia siciliana, nella persona – pare – del boss Gaetano Badalamenti.
Non si sa invece che fine abbia fatto il dipinto: il pentito Salvatore Cancemi racconta di averlo visto durante le riunioni della Cupola, esposto come segno di prestigio, mentre le ultime dichiarazioni di Gaetano Grado fanno pensare che il quadro fosse stato suddiviso in pezzi e poi venduto sul mercato svizzero.
IL MERCATO CLANDESTINO – Esiste dunque un mercato di opere d’arte rubate, ed è anche piuttosto florido, stando ai numeri dei furti avvenuti. Il nucleo TPC fino ad oggi ha recuperato beni per il valore di circa due miliardi di euro, a cui si aggiungono i 7 miliardi e mezzo in falsi d’autore. Nel 2015, solo in Italia, sono stati stimati 55 furti di opere al giorno avvenuti tra case private, chiese, scavi archeologici e musei.
Ma chi è l’acquirente ideale di un’opera rubata? E una volta acquistata come si usa, dove si espone, se si espone?
Chi compra un Caravaggio rubato non potrà certo appenderlo liberamente nel salotto di casa e mostrarlo agli ospiti. Tutti riconoscerebbero anche il famoso Urlo di Edvard Munch, l’opera più rubata al mondo: ogni suo furto è sulle pagine di tutti i giornali del mondo, soprattutto se, come è accaduto nel 2004, i ladri lasciano un biglietto che recita “Grazie per la scarsa sicurezza”.
Certamente in pochi saprebbero riconoscere il Maestro di Faenza o Giusto de’ Menabuoi, ma c’è da chiedersi se i mandanti del furto siano più esperti o se si accontentino giusto di sapere che si tratta di dipinti, che sono antichi e che sono italiani.
Gli acquirenti di questo genere di opere sono comunque generalmente persone che vivono al di fuori della legalità, sia che la sfidino apertamente – come nel caso della famiglia Badalamenti, sia che la ignorino, forti magari di un patrimonio talmente vasto da essere in grado di risolvere qualsiasi problema, come i quasi leggendari magnati russi, o i “grandi ricchi” degli Emirati Arabi.
Quando nel 2015 a Dubai prese fuoco per la prima volta l’immensa Torch Tower, uno dei grattacieli residenziali più alti al mondo, le assicurazioni temettero di dover risarcire somme stellari per le opere d’arte contenute all’interno, ma tirarono presto un sospiro di sollievo perché le denunce furono pochissime: la maggior parte delle opere proveniva dal mercato illecito.
UN CASO RISOLTO: IL FURTO NEL MUSEO DI CASTELVECCHIO – Sempre nel 2015 si assistette in Italia a un furto realmente clamoroso. Una sera di novembre, appena chiuse le porte del Museo di Castelvecchio a Verona, tre malviventi armati e con il volto coperto si sono introdotti nelle sale d’accordo con una delle guardie giurate, Francesco Silvestri. L’altra guardia in servizio quella sera era stata legata e imbavagliata prima che riuscisse a inserire l’allarme.
Silvestri accompagnò i ladri all’interno del museo, indicando di sala in sala le opere più preziose: ne furono trafugate 17, del valore complessivo intorno ai 20 milioni di euro; tra gli artisti coinvolti anche Tintoretto, Andrea Mantegna, Pisanello e Rubens.
Il maltolto fu portato via in un furgone quella sera stessa, trasportato oltre confine avvolto in sacchetti di plastica e nascosto tra i cespugli: così i Carabinieri hanno trovato i dipinti nel maggio del 2016, in un prato nell’isola di Turunciuk sul fiume Dnesdr, a ridosso del confine ucraino.
Furono arrestate 13 persone che avevano avuto un ruolo più o meno attivo in questa operazione. Tra loro naturalmente anche Silvestri, la guardia giurata connivente, che risultò poi essere anche il basista e il referente dell’intera banda, residente per metà in Italia e per metà in Moldavia.
L’avventura però non era finita: il Museo di Castelvecchio fu di nuovo completo soltanto nel dicembre del 2016 dopo una lunga trattativa con il governo ucraino, che sembrava non voler restituire le opere, esposte nel frattempo al Museo di Kiev.
Paradossalmente, il governo ucraino aveva capito che avventure come questa potevano risvegliare l’interesse per l’arte e aumentare le visite al museo, godendo di fatto dell’unico effetto collaterale positivo che portano gli eventi del genere quando si concludono per il meglio.