Marina Abramović: la distruzione degli assiomi dell’arte

Marina Abramović è un’artista contemporanea di origine serba, tra le più conosciute e controverse degli ultimi decenni. Palazzo Strozzi a Firenze ha deciso di dedicare a lei la sua terza grande mostra di arte contemporanea, dopo Ai Weiwei nel 2016 e Bill Viola nel 2017. Con Marina Abramović – The Cleaner, le porte del prestigioso Palazzo si aprono per la prima volta a un’artista donna.

Riconosciuta universalmente come una delle massime esponenti dell’arte performativa, le sue opere continuano a dividere nettamente il pubblico tra coloro che la amano e coloro che la detestano profondamenteDefinire quale delle due fazioni abbia ragione e quale torto potrebbe risultare un inutile esercizio di retorica (de gustibus non disputandum est), ma possiamo risalire al movente di una tale densità di reazione davanti all’opera dell’Abramović.

Una cosa, infatti, è certa: qualunque sia la propria storia, il proprio livello di preparazione o il proprio background culturale, non si rimane mai indifferenti davanti a una delle sue opere.

L’ago della bilancia si trova in quelle verità acquisite su cui si basa la conoscenza comune, le verità indimostrate che potremmo chiamare anche assiomi mentali, che la Abramović si propone di analizzare e di conseguenza scardinare o negare. Nulla è dato per assodato, ogni cosa è messa in discussione dalle fondamenta.

Il titolo della mostra, The Cleanersi riferisce proprio a questo ruolo che l’artista si auto-impone, cioè la pulizia della mente e della coscienza dalle convinzioni assodate e stagnanti.

ASSIOMA #1: “L’ARTE CONTEMPORANEA È DIFFICILE DA CAPIRE” – Contrariamente all’opinione comune sull’arte contemporanea, le opere di Marina Abramović sono estremamente semplici da comprendere. Non manca mai una spiegazione in cui l’artista stessa racconta nel dettaglio ciò che fa e perché lo fa: sta al fruitore, una volta compreso lo scopo dell’opera, provare empatia o antipatia.

Persino la genesi di ogni opera è ampliamente esplicitata, dall’episodio biografico al pensiero che l’hanno originata fino alla scelta del mezzo espressivo.

L’artista non si sottrae al racconto di sé, anzi, fa anche di quello un’opera d’arte.

In mostra è presente fisicamente The Cleaner, cioè la macchina lavatrice che da bambina le sequestrò un braccio, facendole provare per la prima volta l’intensità del dolore fisico. L’episodio è raccontato dalla stessa artista attraverso una pagina del suo diario esposta di lato alla macchina.

Già nel 1983 con Michael Laub scrisse una biografia in frasi lapidarie, diventata nel 2004 lo spettacolo The Biography Remix, in cui rimise in scena tutte le performance della sua carriera fino a quel momento. E poi documentari (The Artist is Present, Matthew Akers, 2012), innumerevoli interviste, persino una TED talkcontribuiscono a rendere il lavoro della Abramović estremamente esplicito.

ASSIOMA #2: “L’ESSERE UMANO RIFUGGE IL DOLORE” – È esperienza comune che l’uomo sia mosso dallo spirito di conservazione di se stesso. La stessa idea di “bene” non sarebbe concepibile senza l’ammissione della vita, della salute o della felicità come obiettivo finale delle proprie azioni.

Le prime ricerche di Marina Abramović, confluite nella serie Rhythm del 1974, andarono esattamente nella direzione opposta, eliminando l’istinto di autoconservazione, spingendosi all’estremo del rischio di morte e del dolore con il fine ultimo di eliminarne la paura.

La performance Rhythm 0 prevedeva che il pubblico della Galleria Morra di Napoli potesse usare sull’artista uno qualsiasi degli oggetti posti su un tavolo, dai petali di rosa a una pistola con un proiettile. Nelle istruzioni scrisse «I am the object. During this period I take full responsibility». Poche ore dopo il pubblico l’aveva presa alla lettera e dopo violenze di vario tipo stava discutendo se farle premere il grilletto della pistola e uccidersi.

Altre volte, invece, è stato il pubblico a salvarla. Durante Rhythm 5 a Belgrado allestì un falò a forma di stella a cinque punte, simbolo del potere socialista che in quegli anni governava la Jugoslavia, suo paese d’origine. Dopo essersi tagliata unghie e capelli e averli gettati tra le fiamme, si sdraiò al centro della stella, ma il fuoco consumò tutto l’ossigeno facendole perdere conoscenza. Soltanto quando le fiamme giunsero molto vicine al corpo il pubblico comprese ciò che stava succedendo ed intervenne per estrarla e salvarla.

Qualcosa di simile accadde l’anno seguente. In una grande stanza nei sotterranei di Palazzo Strozzi è riproposta in video una delle performance più significative di Marina Abramović: Thomas Lips, avvenuta per la prima volta nel 1975 e ripetuta al Guggenheim di New York nel 2005. In mostra sono presenti i video di entrambe le performance e gli oggetti utilizzati, ognuno portatore di una carica simbolica importante.

La performance consisteva infatti nel mangiare un chilo di miele, bere un litro di vino rosso e rompere il bicchiere con la mano, disegnare una stella a cinque punte rovesciata sul suo ventre (l’artista è nuda per tutto il tempo della performance) e poi ricalcarne i tratti con un rasoio, mentre con una frusta si flagellava la schiena. Al termine, si stese su un blocco di ghiaccio a forma di croce, fino a quando il pubblico non si accorse del suo imminente congelamento e non la allontanò dal set della performance.

Due fotogrammi delle registrazioni video di Thomas Lips, nelle versioni del 1975 e 2005. (artbasel.com)

ASSIOMA #3: “L’ARTE DEVE ESSERE BELLA” – Una delle scelte forse più radicali dell’Abramović è quella di non riconoscere la necessità di un’istanza estetica nell’opera d’arteIl fatto che l’arte debba essere bella sembra a Marina un inutile luogo comune, e lo combatte apertamente in Art must be beautiful, quando ripetendo ossessivamente le parole «Art must be beautiful, artist must be beautiful» si pettina i capelli con una spazzola e un pettine per tredici minuti, fino a lacerarsi la pelle.

Anche nel resto della sua opera la ricerca estetica non è predominante. Quando non appare nuda, infatti, si affida a abiti estremamente semplici e dai colori radicali come il bianco, il nero e il rosso.

Nel 1997 infranse anche le regole della bellezza non visiva, ma sensoriale in generale. Alla Biennale di Venezia, per denunciare la brutalità della guerra in Jugoslavia, si mostrò mentre puliva una montagna di vere ossa di bovino, cantando ripetutamente brevi brani di canzoni popolari, mentre lei stessa, attraverso due suoi alter ego digitali, raccontava il metodo di uccisione di ratti nei Balcani e ballava musiche popolari slave.

La piramide di ossa sanguinolente e tre vasche in rame piene di acqua sporca esalavano un odore di morte a cui lei stessa non riuscì a resistere: le terribili condizioni della sala unite alla spossatezza del lavoro di pulizia costante la costrinsero ad abbandonare la performance prima dello scadere dei sei giorni che si era prefissata. Balkan Baroque – così aveva nome la performance – vinse il Leone d’Oro.

marina abramovic balkan baroque
Marina Abramović, Balkan Baroque,Biennale di Venezia, 1997.

ASSIOMA #4: “OCCUPARE SPAZIO FISICO EQUIVALE A ESSERE PRESENTI” – La quasi totalità delle opere di Marina Abramović si fonda sul concetto di presenza-assenza dell’artista: il corpo fisico diventa uno strumento e non reagisce agli stimoli esterni come avverrebbe al di fuori della performance.

In Imponderabilia (1977) l’artista e il suo partner Ulay si posizionarono nudi, in piedi, davanti agli stretti stipiti della porta d’ingresso della Gam di Bologna, costringendo i visitatori a passarvi attraverso, toccando i loro corpi. Gli artisti si fissarono e restarono immobili per tutta la durata della performance, che venne interrotta dalla polizia dopo 90 minuti.

In The House with the Ocean View, messa in scena nel 2002 alla Sean Kelly Gallery di New York, la sfida era rimanere dodici giorni su tre piattaforme estremamente spoglie senza assumere nient’altro che acqua. L’obiettivo dell’artista era quello di modificare l’energia dell’ambiente con la sua sola presenza.

La celeberrima performance del 2010 al MoMA di New York si chiamava The Artist is Present. Due sedie, un tavolo, l’Abramović seduta di fronte a un singolo individuo del pubblico, a rotazione: l’energia creata dalla semplice presenza fisica di due persone una davanti all’altra, senza altri intermediari o distrazioni, diventava opera d’arte.

L’evento ha avuto una risonanza eccezionale a causa della sua straordinaria durata – un totale di 736 ore e 30 minuti – e del suo andare in controtendenza rispetto al tipo di contatto generato dall’era della tecnologia. Telefoni e dispositivi rendono infatti possibile interagire in ogni momento attraverso messaggi o chiamate, senza mai guardare l’altro negli occhi o condividere lo stesso spazio, e quindi la stessa energia.

ASSIOMA #5: “IL PUBBLICO OSSERVA, L’ARTISTA CREA” – Il carattere radicale delle opere di Marina Abramović implica un forte coinvolgimento del fruitore dell’opera, che va al di là della mera osservazione.

In alcuni momenti il pubblico ha potere di vita o di morte sull’artista, come i già citati Rhythm 0, Rhythm 5 e Thomas Lips.

In tutte le altre opere la crudezza delle immagini, l’esibizione diretta della nudità e del dolore o la presenza stessa dell’artista non possono che provocare una reazione nel pubblico, che diventa interlocutore diretto di un dialogo a due. L’indifferenza non è contemplata.

Nemmeno il ruolo dell’artista come creatore dell’opera è dato per scontato.

Sia per la retrospettiva al MoMa di New York del 2010, sia per la mostra di Firenze, la Abramović ha formato una squadra di giovani performer per replicare gli happening anche in sua assenza.

Ripetendo gli eventi con “attori” diversi viene meno quel principio secondo cui una performance è un’opera creata e conclusa in un momento storico preciso, rendendola di fatto ripetibile all’infinito.

Non è certo facile, tuttavia, replicare una performance di Marina Abramović. La prima opera che si incontra entrando a Palazzo Strozzi, per esempio, è la re-performance di Imponderabilia, in cui due persone restano immobili, nude, impassibili una davanti all’altra per ore. Dal 4 al 16 dicembre verrà replicata per la prima volta The House with the Ocean View e il performer starà dodici giorni senza cibo e senza interazioni con alcun essere umano.

Per sopportare questo tipo di lavoro, Marina Abramović ha appreso tecniche di meditazione e ha praticato vipassana, una tecnica indiana che prevede pratiche lunghe non meno di 10 giorni, lontano da tutto e senza contatti verbali con nessuno.

Ai suoi giovani allievi l’artista propone Cleaning the House, un workshop di 5 giorni in cui si svolgono semplici esercizi come aprire e chiudere ripetutamente una porta, guardare la propria immagine allo specchio, fissare colori primari, gridare.

In questo modo, sostiene l’Abramović, si depura la mente e il corpo (figurativamente: the House) da tutto ciò che non è essenziale e si ritrova la propria purezza originaria.

L’UNICO DIVIETO – Si può ammirare, si può gridare, si può piangere, si può andarsene, si può inorridire, si può persino uccidere l’artista o salvarla dalla morte.

Tutto è permesso davanti a un’opera che usa una tale intensità emozionale e pone il pubblico tra i protagonisti dell’opera stessa.

Tutto è permesso, tranne una cosa: ridere.

Lo stesso atto di guardarsi negli occhi in silenzio, un gioco che fin dalla notte dei tempi porta i partecipanti a non riuscire a trattenere una risata, diventa talmente serio da suscitare le lacrime.

Davanti al dolore esibito direttamente, alle ossa, agli scheletri, agli atti di autolesionismo, al silenzio, alla nudità esibita non si può fare altro che essere seri.

Forse è questo l’aspetto che più non convince di Marina Abramović: a volte risulta difficile credere a chi non sa ridere di se stesso.

Elena Ramazzahttp://www.artblitz.it
Sono laureata in Storia dell'Arte all'Università di Firenze e in Arti Visive all'Università di Bologna. Accompagno le persone a scoprire l'arte e scrivo di come questa può influire sulla vita contemporanea.

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