Prometeo Libero è un blog dotato di una sua unicità: nelle parole dei suoi autori, è «il primo portale italiano che si occupa di carceri e di giustizia solo attraverso interviste». Un progetto interessante volto a combattere la disinformazione sul tema carcerario, dando voce alle storie provenienti da quel mondo. Dal 2017 a oggi, Prometeo Libero ha avuto a che fare con protagonisti più o meno importanti della storia italiana, criminale ma anche strettamente politica, restituendo la dimensione umana a chi è dietro le sbarre e cercando di porre un freno a quell’ondata giustizialista che da decenni spadroneggia presso l’opinione pubblica.
Bunte Kuh ha intervistato Giacomo Di Stefano, giornalista per Radiocolonna, Wired Italia e Il Messaggero, che ha fondato e si occupa di Prometeo Libero assieme a suo fratello Riccardo. Con infinita cortesia, Giacomo ha accettato di rispondere alle nostre domande.
Come nasce Prometeo Libero? Cosa vi ha spinto a creare questo progetto?
«L’idea di Prometeo Libero nasce da un’intervista che ho fatto qualche anno fa all’attore di Suburra Adamo Dionisi. Fu il primo ex detenuto che intervistai, e notai una complessità particolare in questo personaggio molto umano e duro. Ci ho intravisto un mondo interessante da raccontare, di solito affrontato in maniera troppo specialistica.
Quando si parla di carceri, se ne occupano realtà di nicchia. Alcune ne discutono in modo tecnico e brillante, ma il tema rimane tra gli addetti ai lavori. Quando l’opinione pubblica vi si avvicina, è a causa di serie tv come Romanzo criminale o Suburra, o per il consueto fatto di cronaca nera con annesso flusso giustizialista che condiziona l’opinione pubblica. Molti aspetti tralasciano di essere raccontati. Prometeo Libero nasce per raccontare in carcere per i non addetti ai lavori, e farlo con la testimonianza diretta.

C’è di fondo un obiettivo: quello di avvicinare soprattutto i giovani, che hanno più di altri interesse ad approcciare il tema quando c’è di mezzo l’“eroe” televisivo, o quando si tratta di indignarsi e invitare a “buttare via la chiave”. Abbiamo anche iniziato una collaborazione con Scomodo, un giornale di studenti liceali e universitari, che nella sua ultima uscita ha pubblicato una nostra intervista.
Prometeo Libero è probabilmente l’unico portale sulle carceri che ricorra solo a testimonianze dirette, anziché alla saggistica per penalisti e tecnici. Ho notato una grande attenzione e fiducia verso il progetto fin dagli inizi, anche quando non c’era certezza su chi fossimo. E la reputazione è in questo senso importante: nessuno vuole confidarsi con un giornalista qualsiasi che possa distorcere la sua immagine.
Il progetto è totalmente privo di profitto – anzi, ha spese, se vogliamo. Io sono giornalista e mio fratello Riccardo è studente di Giurisprudenza; la divisione è a volte tematica. Per esempio, lui ha intervistato il professor Pasquale Bronzo, e in generale si occupa del suo ambito. I ruoli sono però intercambiabili: è un’attività a conduzione familiare, in un certo senso, che dipende dal nostro tempo libero.»

E il tuo tempo libero, per così dire, ti ha portato in un’occasione a trascorrere una giornata intera all’interno del carcere di Rebibbia…
«Esattamente. Rebibbia è un mondo molto particolare: la prima volta che entri in carcere c’è un impatto forte. La prima cosa che si nota è come tutti quanti ti salutino, come quando ci si trova su un sentiero montanaro e si incontra chi viene dalla parte opposta. I detenuti che passeggiano nelle aree consentite salutano tutti, come alla ricerca di un’umanità che per te, venendo da fuori, è inconcepibile.
Si vedono volti e situazioni molto forti: la seconda volta che sono stato a Rebibbia, per la presentazione di un video realizzato da detenuti, alcuni di essi assistevano tutti insieme allo spettacolo nella sala cinema. Tre transessuali, detenuti nel reparto maschile, se ne stavano in disparte isolati dal resto dei compagni. Visitando il carcere realizzi la complessità di questo mondo, e quanto sia il caso di raccontarlo. Senza cercare scoop o sensazionalismi, ma basandosi sui racconti.
È importante cercare di essere rispettosi, ma non troppo amichevoli: quando intervisti un detenuto, non deve passare il messaggio che tu sia un ammiratore della loro vita. Da un lato devi conquistarti la loro fiducia perché ti raccontino il proprio vissuto, aprendosi a uno sconosciuto; devi far capire che quello che ti diranno non sarà usato contro di loro, ma per narrare la loro storia. Dall’altro non devi apparire come un “complice”, che giustifichi le malefatte commesse in nome di una vita difficile. C’è questo equilibrio molto particolare, teso da una parte e dall’altra, che è anche una sfida con se stessi.»

Ti capita che gli intervistati premano per raccontare di un’ingiustizia subita, o un verdetto errato?
«Non mi è successo così frequentemente. Le loro recriminazioni sono più che altro sulla narrazione che è stata fatta del loro caso nel corso degli anni, quindi un attacco ai media. È il caso di Giampaolo Manca, della Mala del Brenta. Oppure contestano la condizione all’interno delle carceri. Ma no, non mi capita ci sia accanimento nei confronti della sentenza, quanto semmai il relativo contorno.
Anche vero che il detenuto, come loro stessi ammettono, è uno che in carcere fa dei racconti mirabolanti della propria vita. Fra di loro si raccontano grandi avventure o esperienze di vita, quando in realtà il tutto va molto ridimensionato. È difficile, a volte, capire quando il racconto può rivelarsi un po’ esagerato. Tra gli obiettivi di Prometeo Libero non c’è raccontare solo le storie già note, ma trovarne di nuove: in molti casi non c’è un riscontro fattibile basato su atti giudiziari o articoli di giornale. Bisogna stare attenti, a livello giornalistico, a non lasciarsi dietro una prateria di affermazioni non verificabili.»

Oltre a Dionisi, hai intervistato anche l’attore di Suburra Alessandro Bernardini e Giampiero Cassarà, il “poeta di Regina Coeli”. Tutte persone che hanno scoperto una nuova vita e passione all’interno delle mura carcerarie. Il sistema, in questo senso, funziona?
«La macchina, di per sé, ha dei problemi. Un recente rilievo del Consiglio d’Europa, di qualche giorno fa, ha descritto lo stato delle detenzioni in Italia nell’ultimo anno. Si è potuto verificare come 20mila detenuti non abbiano ricevuto la sentenza definitiva, e come la metà di essi debba ancora iniziare il primo processo. Sono cifre allucinanti, la media più alta in Europa e indegna di un Paese democratico.
C’è perfino di più: i dati in questione sono contestati dai Radicali che, con Rita Bernardini, sono attentissimi al tema e compiono spesso sopralluoghi nelle carceri. I dati sono forniti al Consiglio d’Europa dalle istituzioni italiane, e rappresentano pertanto la fonte ufficiale. Per esempio, riguardo il sovraffollamento, il Consiglio d’Europa ha stabilito che in Italia ci siano 115 detenuti ogni 100 posti; ma a monte, di quei 100 posti, molti sono contati come a disposizione pur trattandosi in realtà di stanze inagibili o dismesse.

Ho notato che quando il carcere ha dato l’impressione di adempimento alla propria funzione, è stato più per una sensibilità del singolo detenuto nel mettere in campo qualcosa di suo, che non della macchina nel renderlo una persona migliore. Per come è strutturato il sistema penitenziario, è veramente difficile che una persona migliore ne esca meglio di come è entrata. Succede, certo: molte persone ci mettono l’anima fra educatori, psicologi e volontari. Ma è la voglia di riscatto sopita nel detenuto a renderlo attento ad attività teatrali, alla scrittura o allo studio.
Sicuramente le attività proposte da alcuni penitenziari facilitano la cosa, ma bisogna sempre contestualizzare: in questo periodo il detenuto con la faccia e il piglio “giusti”, che faccia teatro, è una figura cercata sulla scia della criminalità romana alla Romanzo criminale, che tira molto. C’è possibilità che una figura del genere sbanchi, ma da principio c’è certamente la determinazione personale del detenuto. Credo che quindici anni fa, prima di Romanzo criminale o Suburra, un ex galeotto con la faccia da cattivo non avrebbe avuto il successo di oggi.
Bernardini, in particolare, mi ha dato l’idea di una persona molto umana e semplice. Con me è stato decisamente cordiale: dopo l’intervista siamo andati a berci qualcosa assieme a San Lorenzo. Nelle parole sue, e di quelli come lui, si nota la consapevolezza di essere riusciti a fare qualcosa di notevole, ma senza far venire meno quella semplicità che avevano prima della ribalta. Aiuta molto l’essere riusciti a sbarcare il lunario, a dir poco, dopo una situazione di disagio totale.»

Hai anche intervistato alcuni “vip” della criminalità di tutta Italia: non solo Giampaolo Manca, ma anche Tommaso Marsella della Banda della Magliana e il boss della Versilia Carmelo Musumeci. Come ti sei relazionato a queste figure, e come si sono lasciati approcciare loro?
«Quando ho intervistato Musumeci, era già un po’ “uscito” dal punto di vista mediatico. È un personaggio notevolissimo: ha una consapevolezza e una serenità d’animo, ma anche una preparazione davvero forti (Musumeci è entrato in carcere con la quinta elementare e ne è uscito con tre lauree. NdA). Ha fatto denunce fortissime riguardo l’ergastolo ostativo; per lui le ostatività sono nel tempo cadute ed è oggi un uomo libero. Parlandoci non ti sembra di aver a che fare con l’ergastolano medio, coltello fra i denti. Tutt’altro.
Poi ci sono figure anche molto diverse, come Marsella. Legatissimo alla malavita romana degli anni Settanta-Ottanta, l’abbiamo raggiunto solo tramite Cassarà, che avevamo già intervistato. Non ci saremmo mai arrivati se non col passaparola. La sua intervista è uno spaccato di romanità e criminalità locale, quella dei tempi passati, ma mi ha colpito soprattutto una cosa. Marsella mi ha detto: “Io, oggi, vivo in una situazione di grande difficoltà, come se fossi un barbone. Quello che domando è: perché non dovrei delinquere più? Se faccio qualcosa di sbagliato, magari vado in galera e campo in maniera dignitosa. Se sono onesto, alla mia età, non mi resta che fare il senzatetto”.
Come fare in modo che le persone che escono non tornino a delinquere? Si torna all’idea del carcere non solo come rieducativo – ed è giusto che lo sia – ma anche eccessivamente afflittivo, che invece è un male.»

Il caso di Marsella non è certamente isolato. Come può fare il carcere a non “affliggere”?
«La pena – lo sottolineo – è sacrosanta. Uno dei problemi del garantismo odierno sta nel macchiarsi spesso di innocentismo. Non bisogna avere un approccio troppo integralista su questi temi; la pena è prevista dalla Costituzione, che peraltro non parla di “carcere”. Forse perché alcuni padri costituenti hanno avuto esperienze di prigionia durante il fascismo, e il tema era molto delicato. Ma attenzione: il carcere ci vuole, in certe situazioni. Consiglio un bel libro che si chiama Abolire il carcere, di Stefano Anastasia – garante dei detenuti del Lazio – e Luigi Manconi, che è un po’ utopistico ma propone il superamento del carcere, sistema inadatto a rieducare e problematico per il reinserimento in società dell’ex detenuto.
In futuro ci piacerebbe fare approfondimento sul tema dei giovani in carcere, affrontato pochissimo e concretamente importante. Mettere in prigione un ragazzo di 26 anni accanto a criminali consumati è un problema. La giustizia minorile, oggi, funziona così: se compi un reato prima dei 18 anni, puoi rimanere negli istituti minorili fino a 25, il che va bene: se mettessi un 19enne nella fossa dei leoni, entrerebbe piccolo spacciatore e uscirebbe Escobar. Ma, di converso, gli istituti di pena minorili hanno sia il 14enne che il 25enne, due mondi a parte. Un’alternativa che vedrei bene è una realtà intermedia, che vada ad esempio dai 19 ai 29 anni.

In sostanza: non solo il carcere obbliga all’ozio forzato, senza lasciare nulla in tasca e compromettendo seriamente la capacità di ottenere un lavoro in futuro; c’è soprattutto la possibilità che se ne esca più delinquenti di prima. Non sono d’accordo sulla costruzione di nuove carceri: credo che lo sforzo debba andare verso la rimodulazione di quanto esiste e, anche, nel depenalizzare un po’.
Per evitare, ad esempio, di avere carceri piene di tossicodipendenti; qualcuno deve spiegarmi come possa redimersi in carcere un tossicodipendente, che ha bisogno di sanitari, non di polizia penitenziaria, così come alcuni casi psichiatrici protagonisti di racconti allucinanti. Ma è inutile costruire istituti che funzionino tutti male allo stesso modo: meglio averne di diversi a seconda dello scopo. Per chi vuole studiare, lavorare, o per detenuti gravi che vadano tenuti sotto sorveglianza particolare. Oggi si differenzia poco: se lo Stato vuole rispondere alla richiesta securitaria che viene dalla società, serve criterio.»

A proposito di garantismo: tu hai intervistato anche Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Cucchi, e Marco Taradash, ex deputato e storica voce di Radio Radicale.
«Con Taradash abbiamo parlato più che altro di garantismo dell’informazione: perché ci sia così poca attenzione da parte delle forze politiche, perché l’informazione sia più attenta al sensazionalismo che all’analisi. C’è uno squilibrio incredibile, anche – per esempio – nel racconto delle dinamiche processuali. Si può finire in prima pagina appena si è indagati, poi sparire ed essere archiviati.
Fabio Anselmo, invece, ci ha parlato del corporativismo presente nelle Forze dell’Ordine per quanto riguarda la difesa in caso di errore. Il tema è molto delicato e molto attuale, vicenda Cucchi in primis. Qui, se non ci fosse stata la tenacia della famiglia, sarebbe forse rimasto il verbale scritto del quale oggi è invece in piena discussione la veridicità. Aspettiamo di vedere come si evolverà questa particolare vicenda, anche se il quadro non è rassicurante.»

Viceversa, hai anche parlato con i legali di Massimo Carminati e della famiglia Spada.
«Sì. Giosuè Naso, l’avvocato di Carminati, è un personaggio molto particolare. Da legale del principale imputato per Mafia Capitale, attaccava la procura per aver dato l’etichetta di “mafiosità” con troppa facilità. È un’aggravante che deve avere presupposti giuridici, come stabilito dall’art. 416-bis. Nel caso di Mafia Capitale l’ipotesi è duplice e particolare: il primo grado riconosceva due associazioni a delinquere separate, e non di stampo mafioso, mentre il secondo ha stabilito che fosse una sola e ha anche contestato l’associazione mafiosa.
Un processo molto controverso, di cui si attende l’arrivo in Cassazione previsto per ottobre. Coloro che si difendono, come alcuni collaboratori di Buzzi presso la 29 giugno cui è stata data l’associazione mafiosa, si sono riuniti in un comitato informale per raccontare, a processo in corso, la loro verità. Sono stati ospitati a tal scopo anche dal Partito Radicale.
Nel caso degli Spada, la tesi difensiva è stata quella che si trattasse di ignoranza, piuttosto che mafiosità. In generale, comunque, nel raccontare questi episodi cerchiamo di non influenzare il lettore rispetto ai casi giudiziari in corso, ma semplicemente raccogliere la testimonianza. Anche quando abbiamo intervistato Stefano Andreotti, non avevamo la presunzione di risolvere il caso Pecorelli: intendiamo semplicemente fornire elementi in più, raccontando la personalità di chi intervistiamo. Aggiungere pezzi ai puzzle talvolta incompiuti che sono i grandi casi giudiziari. Senza la pretesa di svelare verità assolute, ma solo con la volontà di raggranellare qualche storia in più. Certo, mai dire mai!»

A proposito, un’intervista di rara portata è proprio quella che ti ha visto interlocutore di Stefano Andreotti, figlio del “divo Giulio”, pur non strettamente legata alla dimensione carceraria in sé.
«Vero: c’entra però con la dimensione processuale. C’è chi ritiene che il processo sia parte fondamentale della condanna e vada contato tra gli anni dati. È un travaglio, un’attesa, un’inibizione che costituisce un peso per l’imputato. Per questo il tema Andreotti.
Stefano Andreotti si è dimostrato molto disponibile con noi. Non avevamo intenzione di risolvere i grandi rebus della storia italiana, ma ci ha raccontato qualcosa di interessante. Che, ad esempio, se Giulio Andreotti non avesse avuto a che fare con la Dc siciliana sarebbe stato meglio. E altre cose che già “si sanno”, ma sentirsele dire dal figlio del protagonista è abbastanza notevole.
Studiando bene la figura di Andreotti, prima dell’intervista, mi sono reso conto della complessità del personaggio, spesso preso in considerazione per i misteri lasciati alle spalle e per i processi giudiziari. Talvolta non viene affrontato con attenzione il contesto storico di Andreotti: fatto peculiare è che Andreotti, tra i politici di quegli anni, sia uno dei pochi figli del popolo. Se Craxi, De Gasperi, Berlinguer, chi più e chi meno, facevano parte di una piccola o alta borghesia, lui no. Pur avendo quest’aria un po’ grigia, altera, veniva dal basso – ed è riuscito ad avere incarichi di governo dagli anni Quaranta agli anni Novanta.
Andreotti ha incarnato tutti i tratti italici possibili: dalla tendenza alla raccomandazione e alla poltrona, a quel rilancio economico e allo spirito di iniziativa che hanno dato benessere alla generazione dei nostri nonni. Nel bene e nel male, ha rappresentato l’Italia.
Stefano ha detto che “non era né un santo, né Belzebù”, come l’ha dipinto qualcuno; “è una figura che può essere inquadrata nel Purgatorio”. Ce lo vedi benissimo, no? Il tratto caratteriale che negli anni non l’ha aiutato, forse, è stato l’ironia. La risposta sibillina può dare idea di sapere qualcosa anche quando, magari, solo di ironia si tratta.
Prossimamente pubblicheremo su Prometeo Libero anche un’intervista alla figlia di Bettino Craxi: un’altra grande storia italiana – ed è una storia aperta. Un’idea che mi sono fatto nel tempo è che spesso, nei confronti dei grandi personaggi politici d’Italia, il giudizio mediatico sia stato troppo frettoloso. Al netto di azioni talvolta gravi e discutibili, non siamo ancora in grado di poter dare un giudizio storico compiuto e preciso su figure come Andreotti o Craxi.
Manca ancora un po’ di equilibrio, in un senso e nell’altro, tra il giustizialismo e la ricerca della notizia. L’astensione dal complottismo è una delle regole base in questo tipo di indagine.»

Oltre l’intervista a Stefania Craxi, cosa c’è nel futuro prossimo di Prometeo Libero?
«Vorremmo continuare su questo duplice binario: da una parte raccontare le cose note col nostro stile. Oltre alla figlia di Craxi, è in programma anche un’intervista a Rita Bernardini del Partito Radicale. Dall’altra parte, le storie non note: quelle delle quali non vi è traccia, che non compaiono digitando su Google, ma che meritano di esistere – non come celebrazione della criminalità, o magari dell’ex galeotto che oggi vive da bohemièn, ma per pura cronaca storica.
Vogliamo far capire che è un tema che interessa tutti: è un baluardo del nostro ordinamento, della Costituzione, nel quale avviene una violazione sistematica dei diritti che sembra non interessare chi parla di diritti umani in altri campi. Spesso anche gli stessi colleghi. L’afflizione è quel trattamento inumano e degradante, illegale, che riguarda anche chi non è interessato.
Bisogna capire che quando una persona esce dal carcere in un certo modo, questo è un vantaggio per tutti, anche per chi si relaziona al tema con cinismo o superficialità. Bisogna parlarne e far capire quanto è importante che il ladro o lo spacciatore possano poi tornare in società da persone diverse e migliori.»