Il 5 dicembre 2016 Matteo Renzi si è dimesso da Presidente del Consiglio. Le dimissioni sono una conseguenza della vittoria del No al referendum costituzionale del giorno precedente, su cui Renzi si era messo in gioco. Occasione ottima per i suoi oppositori, che hanno immediatamente dato significato politico al referendum e si sono spinti a chiedere lo scioglimento delle Camere. C’è però un problema di fondamentale importanza (seppur non l’unico): la legge elettorale. La Legge 52 del 6 maggio 2015, nota al pubblico con il nome di Italicum, è la legge elettorale in vigore per la sola Camera dei Deputati. In caso di vittoria del Sì, il Senato sarebbe stato nominato attraverso un sistema di elezione indiretta; per questa ragione la legge elettorale disciplina solo il sistema vigente alla Camera. Al Senato è in vigore il cd. Consultellum, una legge elettorale derivata dalla Sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale della Legge 270/2005 (Legge Calderoli, nota anche con il brillante nome di Porcellum).
Il Movimento 5 Stelle, tramite le parole del suo fondatore Beppe Grillo e dei capigruppo alla Camera e al Senato, ha proposto di approvare velocemente, in soli cinque giorni, dei correttivi al Consultellum. Queste modifiche sarebbero atte a favorire la governabilità e a creare maggiore convergenza con l’Italicum. Questa proposta presenta due ordini di problemi. Il primo, tutt’altro che indifferente, è la sentenza della Consulta sulla costituzionalità dell’Italicum, attesa per il 24 gennaio dopo numerosi rinvii. La seconda problematica è di carattere politico: è veramente possibile approvare una legge elettorale in cinque giorni? Qui si intende rispondere a questa domanda, oltre a spiegare cos’è una legge elettorale, le differenze tra le varie leggi elettorali e la discussione di alcuni punti fondamentali nella loro creazione.
COS’È UNA LEGGE ELETTORALE? – Una piccola divagazione sul concetto di legge elettorale si reputa necessario: il concetto può comprendere, a seconda del contesto, diverse norme che regolano le elezioni. Nel significato più ampio, la legge elettorale riguarda tutte le norme che regolano le elezioni; nel significato più stretto, la formula con cui sono distribuiti i seggi del Parlamento. Quest’ultimo concetto è anche denominato comunemente «sistema elettorale». È indubbio che il dibattito attuale sulla legge elettorale riguardi il sistema elettorale in senso stretto, ma si preferisce ricordare di non sottovalutare la rilevanza delle altre norme in materia di elezioni. Queste norme attengono sia al procedimento stesso delle elezioni, come nella definizione dei casi di incandidabilità e ineleggibilità, la presentazione delle liste elettorali e persino la definizione della scheda elettorale, sia a aspetti collaterali (cd. legislazione elettorale di contorno) quale la propaganda politica, la par condicio, il silenzio elettorale e il finanziamento ai partiti. Ognuno di questi elementi migliora il sistema.
Può sembrare divertente pensare che la scheda elettorale possa influenzare l’elettorato, ma in realtà si è verificato più volte nel corso della Storia. Vi è un interessante esempio. Nel 1929 e nel 1934, sotto il governo Mussolini, si tennero elezioni di carattere plebiscitario, dove i cittadini potevano votare sì o no a un listone bloccato preparato dal Gran Consiglio del Fascismo. Le due schede, però, avevano una colorazione diversa (tricolore per il Sì, bianca per il No), e in questa maniera veniva inibita la tutela della segretezza del voto. Questa tutela è stata poi inserita nell’articolo 48 della Costituzione. In un sistema democratico è impensabile che una situazione come quella del 1929 e del 1934 possa verificarsi, ma potrebbero esserci distorsioni di altro tipo. Ad esempio, se un simbolo fosse posizionato sempre nello stesso punto su una scheda elettorale, potrebbe portare voti ad un partito senza che si sappia chi si sta effettivamente votando. Bisogna notare, peraltro, che in Italia il sorteggio per la disposizione dei simboli elettorali è stato introdotto nel 1990, mentre prima si basava sull’ordine di presentazione delle liste.
Per quanto riguarda la legislazione elettorale di contorno, il finanziamento pubblico ai partiti dovrebbe permettere a tutti i partiti di poter concorrere alle elezioni, anche se privi di un forte appoggio economico privato. Inoltre, il sistema di par condicio dovrebbe permettere a tutti gli schieramenti maggiori di poter comparire sui media (in particolar modo la televisione) liberamente. In caso contrario, si potrebbe causare un’indebita azione di influenza sul voto dei cittadini, soprattutto se a concorrere per il governo vi siano partiti che controllano delle reti televisive (è il caso di Berlusconi con Mediaset).
A seconda del Paese, le varie normative sulle elezioni possono essere o raccolte nella stessa legge o divise in più leggi. Il primo caso è esemplificato dal Code Electoral francese, che disciplina sia il sistema elettorale in senso stretto, sia la definizione dell’elettorato attivo (i votanti) e passivo (i candidati), sia il finanziamento pubblico ai partiti. In Italia, invece, nella legge elettorale è contenuta semplicemente la formula di distribuzione dei seggi, mentre la restante definizione della materia elettorale è rimandata al D.P.R. 361/1957. La disciplina della par condicio e delle campagne elettorali sono invece disciplinati dalla legge 28/2000.
LE FORMULE DI DISTRIBUZIONE DEI SEGGI: I SISTEMI MAGGIORITARI – Limitandoci al sistema elettorale in senso stretto, le modalità di distribuzione dei seggi possono seguire tre tipi diversi di formule: maggioritarie, proporzionali e infine miste. Le formule maggioritarie seguono il principio che chi guadagna la maggioranza dei voti viene eletto e sono basate quasi esclusivamente su collegi uninominali. Tuttavia, vi sono due possibilità. In alcuni casi, come la Gran Bretagna, il Canada o gli Stati Uniti, a vincere il seggio è il candidato che riceve la maggioranza relativa dei voti. Questo sistema, tipico dei Paesi anglosassoni e dei cd. sistemi Westminster (sistemi bipartitici con alternanza), è noto anche con il nome di plurality. In Italia, la legge Tatarella (l. 43/1995) sulle elezioni regionali prevede un sistema di tipo plurality, che è altresì presente per i Comuni sotto i quindicimila abitanti.
In altri Paesi, come la Francia, il candidato deve ricevere la maggioranza assoluta per vincere il seggio: questo sistema è definito majority. In un sistema pluripartitico è tuttavia improbabile che un candidato raggiunga la maggioranza assoluta, in particolar modo in elezioni rilevanti come quelle del Presidente della Repubblica. Per questa ragione, la maggior parte dei sistemi elettorali di tipo majority prevede un ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il risultato migliore al primo turno. Con due candidati, infatti, si ha la certezza del raggiungimento della maggioranza assoluta. In Italia un sistema maggioritario con ballottaggio è presente per le elezioni amministrative nei Comuni sopra i quindicimila abitanti. Anche l’Italicum prevede un ballottaggio, ma l’impianto è ancora tendenzialmente proporzionale con collegi plurinominali.
La risposta al dilemma di come raggiungere la maggioranza assoluta in sistemi pluripartitici ha visto una peculiare soluzione in Australia con il voto alternativo. Questo sistema prevede che l’elettore classifichi i vari candidati (almeno tre) secondo un ordine di preferenza. Per ogni candidato sono calcolate le prime preferenze ricevute; in caso di mancato raggiungimento della maggioranza assoluta, il candidato con meno voti viene eliminato e questi voti vengono ridistribuiti secondo la seconda preferenza. La procedura prosegue fino al raggiungimento della maggioranza assoluta da parte di un candidato, che potrebbe anche non essere il candidato che aveva ricevuto il maggior numero di preferenze. Questo sistema è usato per la Camera dei deputati australiana, il Presidente della Repubblica d’Irlanda e il Presidente dell’India.
(Attenzione, potrebbe avere effetti collaterali, come partiti che tolgono l’appoggio alla maggioranza perché non hanno ricevuto il Ministero che volevano. Tipo il PRI nell’Andreotti VII.)
LE FORMULE DI DISTRIBUZIONE DEI SEGGI: I SISTEMI PROPORZIONALI – Il principio fondamentale delle formule proporzionali è la rappresentatività delle forze politiche secondo il numero di voti. Le formule proporzionali, difatti, sono sempre accompagnate da collegi plurinominali, in cui i seggi sono assegnati proporzionalmente ai voti ottenuti dalle varie forze politiche. Se i sistemi maggioritari tendono quindi a premiare i partiti principali – con l’eccezione di partiti concentrati in alcune aree, come lo Scottish National Party in Scozia – i sistemi proporzionali tendono a difendere la rappresentanza anche dei partiti più piccoli. L’assegnazione dei seggi nelle formule proporzionali può seguire due logiche differenti.
La prima è la logica del quoziente, fatta propria anche dall’Italicum: viene stabilita una quota di voti (cd. quoziente elettorale) con cui un partito può conquistare un seggio. Questo quoziente è calcolato dividendo il numero dei voti per il numero dei seggi o per un numero superiore. In caso di seggi non assegnati, essi sono distribuiti in base ai “resti”, cioè il numero di voti inutilizzati nel calcolo precedente. I resti sono poi trasformati in seggi con l’uso del metodo del divisore. Un quoziente calcolato sul numero dei seggi in palio (cd. metodo Hare) è indubbiamente il sistema più vicino alla rappresentanza massima dei singoli gruppi, in particolare se abbinato a un collegio unico nazionale e all’assenza di una soglia di sbarramento. Solo la Germania di Weimar aveva un sistema ancora più attento alla rappresentanza (cd. voto automatico), con l’assegnazione di un deputato ogni sessantamila voti e senza distribuzione dei seggi secondo il calcolo dei resti. Il numero di deputati poteva quindi variare da elezione a elezione. Vista la conclusione dell’esperienza weimariana, non ci sentiamo di consigliare una formula simile.
Tuttavia, il metodo Hare, utilizzato ad esempio in Grecia, è stato razionalizzato per favorire la governabilità, giacché questo modello tende a favorire i partiti più piccoli. Queste razionalizzazioni sono state possibili tramite il cambio del divisore: se infatti il metodo Hare divide il numero di voti per il numero dei seggi, il metodo Hagenbach-Bischoff (usato in Svizzera) lo divide per il numero di seggi più uno, il metodo Imperiali aggiungendo due, infine il metodo Droop aumenta di un’unità sia il dividendo sia il divisore. Visto che le differenze sembrano alquanto cervellotiche, si farà un esempio pratico. Si ponga che nel collegio di riferimento siano stati contati un totale di 100.000 voti per l’assegnazione di cinque seggi. Con il metodo Hare, la quota di voti necessaria è pari a 20.000, perché 100.000/5=20.000. Con il metodo Hagenbach-Bischoff, la quota scende a 16.667, perché 100.000/6= 16.666,666. Con il metodo Imperiali (che era il metodo utilizzato in Italia prima del 1993), la quota scenderebbe ulteriormente a 14.286, perché 100.000/7=14.285,741. Un quoziente minore permette ai partiti più grandi di acquisire un maggior numero di seggi, perché avrebbe dei resti più alti o riuscirebbe persino ad acquisire direttamente un seggio in più.
La seconda famiglia segue la logica dei divisori, persino più cervellotica della precedente. Il numero dei voti di ogni partito è infatti diviso secondo una sequenza di divisori. I seggi sono poi assegnati ai partiti secondo i quozienti maggiori. Vi sono due formule principali che aderiscono a questa famiglia: la formula d’Hondt, usata in numerosi paesi europei quali Belgio, Paesi Bassi e Spagna, i cui divisori sono 1, 2, 3, 4, 5… fino al numero di seggi da assegnare; e la formula Sainte-Laguë, usata in Nuova Zelanda e in Germania, i cui divisori sono i numeri dispari, fino al raggiungimento dei seggi da assegnare. Quest’ultimo metodo ha anche una variante, la Sainte-Laguë modificata, usata in Danimarca, Norvegia e Svezia, dove il primo divisore corrisponde a 1,5 invece che a 1. Queste tre formule hanno effetti leggermente diversi sulla rappresentanza. La formula Sainte-Laguë è quella più favorevole ai piccoli partiti, perché lo scarto di due unità tra un divisore e l’altro riduce notevolmente il quoziente rispetto a quello precedente: ad esempio, 100/3= 33,3 e 100/5=20. La Sainte-Laguë modificata tende a smorzare la rappresentanza dei partiti minori, mentre il metodo D’Hondt è indubbiamente quello che favorisce maggiormente i partiti più grandi. La differenza tra divisori è inferiore rispetto al metodo Sainte-Laguë e questo implica anche differenze minori tra i quozienti; ad esempio 100/3= 33,3 e 100/4=25. Considerato che i seggi sono assegnati in base ai quozienti più alti, in quest’ultimo caso si nota una tendenza più favorevole ai partiti maggiori.
(in foto, Angela Merkel)
I SISTEMI MISTI – I sistemi proporzionali quindi tendono a favorire indirettamente la rappresentanza dei piccoli partiti a discapito di maggioranze di governo coese e stabili, mentre i sistemi maggioritari tendono a favorire i partiti principali causando rilevanti distorsioni nella rappresentanza del voto. In alcuni ordinamenti sono stati quindi apportati dei correttivi per bilanciare le esigenze di governabilità e rappresentatività.
Il correttivo principale alle formule proporzionali è l’introduzione di un premio di maggioranza. Questo sistema, utilizzato in Grecia e presente anche nel Porcellum e nell’Italicum, assegna un consistente premio di maggioranza al partito (in Grecia) o alla coalizione (in Italia) che ha guadagnato il maggior numero di voti. In Grecia sono assegnati 50 seggi (un sesto del Parlamento ellenico) al partito vincente, mentre in Italia si assicura una maggioranza dei seggi (340) della Camera dei Deputati. La differenza sostanziale tra le due leggi elettorali italiane sta nel limite che è posto al premio di maggioranza. Con il Porcellum, la coalizione vincente otteneva 340 seggi con il semplice raggiungimento della maggioranza relativa. Tuttavia, ciò poteva comportare che un partito (o una coalizione) con il 27% dei voti potesse ottenere la maggioranza dei seggi, comportando una notevole distorsione del voto. Per questa ragione la Consulta dichiarò l’incostituzionalità parziale della Legge Calderoli. L’Italicum, invece, prevede una soglia del 40% per l’assegnazione del premio di maggioranza: in caso di mancato raggiungimento di questa soglia, si andrà al ballottaggio tra le due coalizioni maggiori. È da rilevare che l’Italia ha una lunga tradizione di tentativi di stabilire un premio di maggioranza. La cd. Legge Truffa (legge 148/1953) avrebbe assegnato il 65% dei seggi della Camera al partito o alla coalizione che avesse superato la maggioranza assoluta dei voti. Il premio di maggioranza non scattò però mai perché la DC (primo partito) non raggiunse la maggioranza assoluta.
Per ovviare alle distorsioni dei sistemi maggioritari, alcuni Paesi hanno introdotto nella propria legge elettorale quote di seggi elette con formule proporzionali, che possono arrivare fino al 50% dei seggi totali, come in Germania. Qui l’elettore esprime un voto per il candidato al seggio uninominale e un altro alla lista per la ripartizione proporzionale. Ciò può avvenire secondo due criteri: o si introduce una quota proporzionale separata nel computo da quella maggioritaria, come avviene in Giappone e Corea del Sud, o si propone una quota proporzionale che è collegata ai collegi uninominali. A questa seconda categoria apparteneva sicuramente il Mattarellum (leggi 276 e 277 del 1993), una legge complicatissima e bizantina. I 630 seggi della Camera dei Deputati erano assegnati per il 75% in collegi uninominali con sistema plurality e per il restante 25% con sistema proporzionale (metodo D’Hondt) in base ai voti ottenuti dal singolo partito. L’elettore poteva quindi dare due voti, uno al candidato al seggio uninominale e uno a una lista, in modo che un elettore potesse anche votare una lista differente da quella del candidato
A rendere complicato (e unico) il Mattarellum era la previsione del cd. scorporo. Questo sistema sottraeva una parte dei voti ottenuti dai candidati al collegio uninominale al voto espresso verso le liste. Questa quota corrispondeva al numero di voti che il candidato aveva necessitato per vincere il seggio, vale a dire ai voti del secondo classificato più uno (maggioranza relativa). Per fare un esempio, se in un collegio un candidato vinceva il voto popolare con 65 voti e il secondo classificato ne guadagnava 29, soltanto 35 voti venivano considerati per lo scorporo ( 65-30=35). Questo sistema serviva a bilanciare la parte maggioritaria: infatti, lo scorporo riduceva il numero di voti computabili per la parte proporzionale solo ai partiti maggiori, che erano quelli che vincevano i seggi uninominali. Il sistema dello scorporo fu poi distorto, in pieno stile italiano, dal collegamento dei candidati dei collegi uninominali a delle liste civetta, per evitare lo scorporo dei voti del vincitore nel computo proporzionale. Gli eletti ai seggi uninominali erano quindi iscritti in queste liste civetta, in modo che i partiti principali non dovessero perdere voti in fase di scorporo.
Questa disamina permetterebbe già di rispondere negativamente alla domanda che titola questa analisi. Tuttavia, giacché non c’è mai fine al peggio, vi sono ulteriori fattori che contribuiscono a complicare la natura del sistema elettorale, quali la definizione dei collegi, la soglia di sbarramento e il dibattito sulle preferenze. Su questi fattori proseguirà l’analisi nel secondo atto.
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