Israele for dummies: le leggi sugli insediamenti e sui visti

In questi ultimi giorni il Parlamento israeliano (Knesset) ha iniziato a discutere due leggi molto controverse. La prima riguarda una sanatoria per gli insediamenti ebraici costruiti su territori appartenenti a cittadini palestinesi in Cisgiordania. Annunciato per il 31 gennaio, il dibattito in Aula sarà trattato durante la prossima settimana; il disegno di legge potrebbe essere approvato già il 6 febbraio. La seconda prevede invece una modifica della normativa sui visti: essi verrebbero negati a individui e associazioni schierate per il boicottaggio verso Israele (in particolare gli aderenti al movimento Boycott, Divestment, Sanctions). Entrambe le proposte si legano allo status degli insediamenti, che sono uno dei principali motivi di scontro tra israeliani e palestinesi e sono un ostacolo per il processo di pace.

Il palazzo della Knesset. (Wikipedia)

LA FORMAZIONE DEL GOVERNO IN ISRAELE – Israele ha una forma di governo parlamentare: il capo dell’esecutivo è il Primo Ministro, designato dal Presidente della Repubblica. Questi, eletto per sette anni dalla Knesset a maggioranza assoluta, consulta le formazioni parlamentari e decide a quale leader di partito assegnare l’incarico. Il Primo Ministro potrebbe quindi non appartenere al primo partito, che potrebbe anche essere relegato all’opposizione. Ad esempio, il movimento centrista Kadima (guidato dall’ex ministro degli Esteri Tzipi Livni) vinse le elezioni del 2009 e ottenne 27 seggi. Tuttavia, il Presidente Shimon Peres (peraltro compagno di partito di Livni) assegnò l’incarico a Benjamin Netanyahu, leader del Likud. Peres reputò che vi fossero maggiori probabilità di creare un governo di coalizione guidato dal partito conservatore.

Per la gioia di certa retorica populista, il Primo Ministro è stato eletto direttamente dal popolo in tre occasioni. La votazione sul capo del governo non era però legata a quella della Knesset e comportò notevoli difformità politiche tra esecutivo e maggioranza nel legislativo. Nel 1996, Benjamin Netanyahu vinse le elezioni da primo ministro, ma in Parlamento furono i Laburisti ad avere la maggioranza relativa: il leader del Likud fu costretto a formare una coalizione con alcuni partiti minori. Nel 1999 si verificò una situazione simile: il laburista Ehud Barak vinse le elezioni, ma il suo partito guadagnò solo ventisei seggi, molto al di sotto della maggioranza richiesta per ottenere la fiducia. Barak fu costretto a creare un governo di coalizione eptapartitico. Nel 2001, infine, si tennero solo le elezioni del Primo Ministro in seguito alle dimissioni di Barak. Ariel Sharon, nuovo leader del Likud, vinse le elezioni, ma fu costretto a creare una coalizione con i Laburisti, che rimanevano la formazione di maggioranza in Parlamento. Sharon eliminò appena insediato le elezioni dirette per il primo ministro, che oggi ha un rapporto fiduciario con il Parlamento, assieme ai ministri da lui designati.

I centoventi deputati della Knesset sono eletti con sistema proporzionale su un collegio unico nazionale, che favorisce la rappresentanza di tutti i partiti. Prima del 1992, vi era una bassissima soglia di sbarramento, fissata al 1%. Nelle due legislature precedenti, tuttavia, Laburisti e Likud furono costretti a formare un governo di coalizione: in seguito, la soglia fu progressivamente alzata per limitare la rappresentanza dei partiti minori e permettere una maggiore governabilità. Attualmente entrano in Parlamento le formazioni che superano il 3,25% dei voti.

 

Aryeh Deri, leader di Shas e Ministro degli Interni, il 30 dicembre 2014. (Hadas Parush/Flash90)

KNESSET E GOVERNO DAL 2015 A OGGI – La ventesima Knesset, iniziata nel 2015, ha al suo interno dieci raggruppamenti politici. Il partito di maggioranza è il Likud ha ottenuto 30 seggi. Il principale partito di opposizione è il Campo Sionista, una coalizione tra i Laburisti di Isaac Herzog (ex ministro del Welfare) e Hatnuah, il nuovo partito di Tzipi Livni: il gruppo ha guadagnato 24 posti. La terza fazione è composta dalla Lista Comune dei partiti arabi, guidati da Ayman Odeh, che ha vinto 13 deputati. I restanti cinquantatré seggi sono suddivisi tra Yesh Atid (un partito di centro-sinistra formato nel 2012, 11 seggi), Kulanu (10 deputati), la Casa Ebraica (8 seggi), Shas (7 seggi), Yisrael Beteinu (6 parlamentari), lo United Torah Judaism (sempre 6 deputati) e infine il partito di sinistra Meretz, con 5 membri della Knesset. La distinzione tra i partiti non si basa solo sulle posizioni politiche (come sul conflitto con i Palestinesi), ma spesso vi è anche una radice etnica.

Sei di questi partiti fanno parte della coalizione governativa e detengono una maggioranza risicata di 67 seggi. Tre di queste formazioni (Likud, Kulanu e Yisrael Beteinu) hanno natura laica, mentre i restanti tre (Casa Ebraica, Shas e United Torah Judaism) sono legati a movimenti ultra-ortodossi. Shas è popolare tra gli ebrei sefarditi, provenienti dalla penisola iberica, mentre Yisrael Beteinu è legato agli ebrei di origine russa.

Le posizioni della coalizione sul conflitto israelo-palestinese sono molto discordanti: alcuni partiti, in particolare Kulanu e Yisrael Beteinu, sarebbero favorevoli alla creazione di due stati distinti per Israele e Palestina, comprendendo anche degli scambi di città tra i due paesi. Altre formazioni, come Shas e Likud, sono divise sul tema, mentre la Casa Ebraica è apertamente contraria a qualsiasi riconoscimento della Palestina e a qualsiasi cessione di territorio. Quest’ultimo movimento, assieme a United Torah Judaism, sono tra i più fermi promotori della costruzione di nuovi insediamenti, anche a causa dei loro importanti esiti elettorali in queste aree.

 

Modi’in Illit (64179 abitanti) è il più grande insediamento israeliano in Cisgiordania.
(Miriam Alster/Flash90)

GLI INSEDIAMENTI IN CISGIORDANIA – La questione delle cd. colonie è molto complessa ed è la conseguenza diretta di alcune scelte politiche di Israele e degli stati confinanti. Gli insediamenti sono dei piccoli paesi (alle volte anche città, come Modi’in Illit e Ariel) costruiti oltre la Linea Verde, la demarcazione stabilita dopo l’armistizio del 1949 tra Israele e i paesi arabi.  Va rilevato che i confini stabiliti dalla Risoluzione 181 del 1947 fossero più favorevoli alla Palestina, ma la contrarietà alla creazione di uno stato israeliano portò i Paesi arabi a rifiutare la risoluzione ONU.

Israele ha poi preso il controllo dei territori fino al fiume Giordano in seguito alla Guerra dei Sei Giorni del 1967. La costruzione degli insediamenti parte l’anno successivo, quando un gruppo di ebrei si trasferisce temporaneamente ad Hebron. Da quel momento centinaia di migliaia di israeliani si sono stabiliti nei territori occupati: oltre alla Cisgiordania, sono stati fondati insediamenti nel Sinai, a Gaza e sulle alture del Golan. La costruzione di queste colonie è contestata dalla comunità internazionale, che si è più volte espressa contro Israele. In particolare, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha emanato una risoluzione il 23 dicembre 2016. Storica l’astensione degli Stati Uniti, che avevano sempre usato il veto nelle risoluzioni anti-israeliane.

Nel 2014 il ministro dell’Edilizia, Uri Ariel, ha dichiarato la presenza di oltre settecentomila israeliani in Cisgiordania e nella parte est di Gerusalemme. Gli insediamenti del Sinai sono stati smantellati in seguito agli accordi di pace del 1979 con l’Egitto; quelli sulla striscia di Gaza sono stati invece evacuati nel 2005. L’allora primo ministro Ariel Sharon approvò un piano di disimpegno a Gaza, che portò anche all’evacuazione di quattro villaggi in Cisgiordania.

Il pubblico conosce molto bene le posizioni più estreme sulla questione delle colonie. I palestinesi sono contrari a qualsiasi tipo di insediamento israeliano nel loro territorio. Una maggioranza richiede la completa evacuazione di queste città; tuttavia una minoranza approverebbe la permanenza di questi complessi, a patto che passino sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Dal lato israeliano, le posizioni più estremiste sono di natura religiosa: la Palestina fa parte della Terra Promessa da Dio al popolo ebraico e per questo tutto il territorio dovrebbe essere sotto controllo direttamente israeliano, per cui ben vengano le colonie, soprattutto se nuove. Questa, ad esempio, è la posizione della Casa Ebraica.

Questa posizione non è però l’unica presente in Israele, ma vi sono differenti spiegazioni fondate su ragioni politiche, sociali ed economiche. Secondo alcuni, avamposti e insediamenti sono costruiti a fini difensivi, in particolare sulle alture del Golan (Israele e la Siria non hanno mai firmato un accordo di pace). Secondo una prospettiva di realpolitik, la costruzione e la presenza degli insediamenti sarebbero uno strumento di leverage durante le negoziazioni di pace con la Palestina. Dal punto di vista economico, i coloni sono sostenuti finanziariamente sia da alcune ONG estere, sia attraverso pesanti sgravi fiscali e benefici economici promossi dal governo israeliano. È evidente che sia molto appetibile, per un ebreo giovane e/o di bassa estrazione sociale, il trasferimento nei territori occupati. La posizione più interessante muove da una ragione sociale: prima del 1948, numerose famiglie di etnia e religione ebraica vivevano nei territori cisgiordani. Dopo lo scoppio della guerra, queste famiglie sono dovute scappare e tornare in Israele. È plausibile (oltre che giusto) che queste famiglie desiderino tornare nei luoghi dove sono nati e/o cresciuti, allo stesso modo degli arabi che vivono in Israele.

Altro problema è la creazione di avamposti, non autorizzati dal governo israeliano e che creano ulteriori tensioni con i palestinesi: una parte di questi avamposti è stata smantellata, ma ciò ha causato numerosi episodi di rivolta. La pretesa ebraica della Terra Promessa e quella palestinese dell’eliminazione degli ebrei nei territori occupati confliggono tra loro e sono in realtà due facce di una stessa politica etnica. Tale violenza politica bipartisan non può che esacerbare gli animi e creare un crescendo di odio.

Anche l’attività del governo israeliano è piuttosto incoerente: a momenti di disimpegno e di blocco di nuove costruzioni (come nel 2005), seguono periodi di favore governativo alla costruzione di nuovi insediamenti. Al momento il vento tira in questa direzione, in parte per la presenza di due partiti pro-insediamenti al governo, in parte per l’arrivo di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti. Già il 24 gennaio, appena quattro giorni dopo l’inaugurazione a Washington, il governo israeliano ha promosso la costruzione di nuovi edifici a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.

 

Bezalel Smotrich, parlamentare della Casa Ebraica, ha proposto la legge di revisione dei visti. (Courtesy/Regavim)

LE LEGGI IN DISCUSSIONE IN PARLAMENTO – L’evoluzione della politica israeliana ha portato a istanze sempre più forti a favore degli insediamenti e contro gli oppositori interni ed esterni. La prima proposta, in discussione la prossima settimana, prevede la sanatoria di circa tremila-quattromila case costruite abusivamente in Cisgiordania; ad esse si aggiungerebbe anche la normalizzazione di alcuni edifici costruiti negli avamposti, che sono vietati secondo la legge israeliana. La risposta della comunità internazionale è stata quasi all’unanimità di condanna, ma anche all’interno di Israele vi è opposizione. Isaac Herzog, leader laburista, infatti, ha contestato la legge, definendola contro “l’intera struttura legale israeliana”. Si noti che Herzog appena un mese fa si era espresso contro la risoluzione dell’ONU.

La seconda proposta prevede invece il divieto di concessione del visto a chi propone un boicottaggio contro Israele. In particolare, non sarebbero concessi lasciapassare agli oppositori degli insediamenti. Vi sarebbe, come evidenziato da Roy Folkman (Kulanu), un’inversione di rotta nella procedura di approvazione: non viene permesso l’ingresso, a meno che il ministro degli Interni non decida diversamente.  Oggetto della direttiva sarebbero anche i palestinesi con permesso di soggiorno in Israele: se sostenitori del boicottaggio, sarebbero rimpatriati. Va evidenziato il parere negativo verso questa previsione del ministro di Giustizia. L’opposizione ha manifestato ferma contrarietà verso il provvedimento, definendolo come una forma di censura politica. La parlamentare Tamar Zandberg (Meretz) ha addirittura proposto un emendamento che riscontrasse come obiettivo della legge il “sabotaggio delle negoziazioni per la pace”. Una presa di posizione alquanto intensa.

 

Alessio Agostinis
Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università di Roma - La Sapienza e in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Bologna - Polo di Forlì. Sono fondatore di BunteKuh e sto studiando per un Master in Marketing, Comunicazione e Made in Italy del CSCI.

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