Get ready to impeachment. Questo è il testo di un tweet del 21 marzo diretto al presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L’autrice è Maxine Waters, deputata democratica della California. La ragione è sempre la stessa: i rapporti molto stretti con la Russia durante la campagna elettorale, che già hanno mietuto come prima vittima Michael Flynn, ex consigliere alla sicurezza nazionale, e che hanno tirato in mezzo anche l’Attorney General Jeff Sessions.
Il tweet è passato sottobanco in Italia, dove la stampa era giustamente occupata con l’attentato verificatosi a Londra. Una certa parte della popolazione era troppo occupata a concentrarsi sull’interessantissima protesta contro i vitalizi davanti a Montecitorio, che come minimo avrebbe dovuto fare le prime pagine. In ogni caso, preoccupa l’uso facile del termine impeachment, che definisce un istituto di estrema ratio contro i pubblici ufficiali.
CHE COS’È L’IMPEACHMENT? – Con questo termine si definisce la messa in stato d’accusa di un individuo che detiene funzioni pubbliche: spesso si tratta del Presidente della Repubblica, ma lo strumento può essere allargato ai giudici e anche ai membri del governo. Le attività illecite commesse sono differenti nei vari ordinamenti, ma si tratta in ogni caso di crimini molto gravi. Le costituzioni usano formule molto aperte: definizioni dettagliate rischierebbero di lasciar fuori alcune fattispecie. Ad esempio, la Costituzione italiana permette la messa in stato d’accusa in caso di alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90). Ancora più generico è l’articolo 65 della Costituzione sudcoreana, che parla di violazioni della Costituzione e di altre leggi. Il Brasile è un po’ più preciso, quando parla di atti contro l’esercizio del potere legislativo, esecutivo o giudiziario, o ancora che impediscano le libertà e i diritti dei cittadini (art. 85-86). In generale, viene lasciata molta discrezionalità agli attori del processo di impeachment. A iniziare la procedura è sempre il Parlamento. In caso di parlamento bicamerale, sono state trovate soluzioni differenti: di norma è la Camera bassa a mettere il presidente in stato d’accusa. In Germania (art. 61) e in Irlanda (art. 12), è indifferente quale camera inizi il procedimento, mentre in Repubblica Ceca (art. 65) è sempre il Senato. In Italia e in Romania (art. 96) la decisione spetta al Parlamento in seduta comune.
Questa prima fase necessita di maggioranze molto elevate: in numerosi stati, tra cui Brasile, Corea del Sud e Irlanda, è necessaria una maggioranza dei due terzi. In Italia “basta” una maggioranza assoluta. Casi particolari sono gli Stati Uniti e le Filippine, dove bastano rispettivamente la maggioranza semplice e un terzo della camera.
A questa fase segue quella della decisione giuridica sui crimini commessi dal pubblico ufficiale. Di norma questo giudizio viene assegnato alla Corte Costituzionale (così in Italia, Germania, Corea del Sud, Croazia e Lituania, ad esempio). In altri casi, è l’altro ramo del Parlamento a decidere, come nelle Filippine, negli Stati Uniti, in Irlanda e in Brasile. Le basse maggioranze richieste per la messa in stato d’accusa negli Stati Uniti e nelle Filippine sono alzate fino ai due terzi per la votazione finale. Un caso particolare è quello rumeno: non è la Corte Costituzionale a decidere, bensì un referendum popolare. Non proprio una garanzia di giustizia.
IL GIRO DEL MONDO IN SEI DESTITUZIONI – Va da sé che una procedura così complessa venga utilizzata solo in casi eccezionali. Si è già parlato in queste pagine dell’impeachment di Park Geun-hye, travolta da uno scandalo di corruzione dovuto alla sua amica Choi Soon-sil.
Ad averla preceduta di qualche mese è stata Dilma Rousseff, ex presidentessa del Brasile. Rousseff è salita al potere nel 2010 ed è stata rieletta nel 2014. Appartiene al Partito dei Lavoratori, il movimento di sinistra fondato dall’ex presidente, e mentore della Rousseff, Ignacio Lula da Silva. La presidentessa è stata accusata di aver manipolato il bilancio dello Stato nel 2014, utilizzando fondi bancari per approvare un piano per le famiglie di contadini. Facendo ciò ha bypassato il Parlamento e, soprattutto, il piano potrebbe averla aiutata nelle elezioni presidenziali dello stesso anno. La Camera ha deliberato la messa in stato d’accusa a Maggio, mentre il Senato ha destituito definitivamente Rousseff il 31 agosto 2016.
Ma questa è solo la punta di un iceberg politico con una trama complessa come quella di Beautiful. Il fulcro è molto affine al nostro sentire: dal 2014 si è scoperto uno scandalo di corruzione che ha travolto tutti i partiti politici. Al centro dello scandalo era Petrobras, la compagnia statale petrolifera, che assicurava soldi ai partiti governativi con una maggiorazione del costo sui propri contratti. Lo scandalo, noto con il nome di Lava Jato (“autolavaggio”), ha investito sia l’ex presidente Lula, sia il vicepresidente (ora presidente) Michel Temer, sia i presidenti di Camera e Senato, tutti e tre appartenenti al Partito per il Movimento Democratico Brasiliano (PMDB).
E c’è di più: il nuovo governo creato dal neo-presidente Temer aveva iniziato a perdere pezzi già tre mesi dopo il suo insediamento a causa dello scandalo. Tra questi si è dimesso anche il ministro contro la corruzione, un inizio di ottimo auspicio. Ma non è questo il dato paradossale: l’unica carica politica a non essere implicata nello scandalo, pur essendone di certo a conoscenza, è proprio Rousseff! Questo è un buon esempio del pericolo maggiore del procedimento di impeachment: l’uso politico dello strumento. La messa in stato d’accusa può essere utilizzata per eliminare politicamente, o costringere alle dimissioni, un avversario politico. Si ricordi che in Brasile, come negli altri sistemi presidenziali e semipresidenziali, il Presidente è eletto dal popolo e non ha rapporto di fiducia con il Parlamento.
Il Guardian riporta conversazioni di un parlamentare del PMDB, che avrebbero spinto verso l’impeachment della presidentessa per l’insabbiamento delle indagini su Lava Jato. Ma di sicuro il momento più allucinante è stato regalato da Janina Paschoal, che ha redatto la proposta di impeachment “ispirata da Dio e per difendere i nipoti della Rousseff”. Vagamente vanagloriosa.
Vi è stato un altro tentativo di impeachment in Brasile nel 1992: l’allora presidente Fernando Collor de Mello fu accusato di essersi arricchito con soldi pubblici e di aver ricevuto mazzette. Il 2 ottobre 1992, dopo mesi di polemiche e discussioni, la Camera approvò la messa in stato d’accusa: durante la seduta decisiva al Senato, Collor si dimise da presidente, sperando di scampare all’interdizione dai pubblici uffici per otto anni. Il Senato accettò le dimissioni ma votò comunque a favore dell’interdizione. Nel caso più recente, invece, non è stata raggiunta la maggioranza dei due terzi per porre l’interdizione ai pubblici uffici.
Anche nel vicino Paraguay vi è stato un caso di impeachment, seppur risolto in un tempo molto minore. Corre l’anno 2012 e il Presidente Fernando Lugo viene accusato di incompetenza, ragione sufficiente per far scattare il procedimento. La scintilla nasce da degli scontri tra contadini e polizia per un pezzo di terra nell’est del Paese, che hanno causato diciassette morti. La messa in stato d’accusa è durata due giorni ed è stata approvata a maggioranza plebiscitaria prima dalla Camera e poi dal Senato. Una procedura così veloce ha portato a una reazione dura dei paesi confinanti, che hanno sospeso il Paraguay dall’Unione delle nazioni sudamericane (UNASUR).
Tornando in Asia, anche le Filippine hanno avuto il loro presidente messo in stato d’accusa. È il 13 novembre del 2000 e la Camera dei rappresentanti filippina accusa il presidente Joseph Estrada di corruzione per finanziare il proprio gioco d’azzardo. Il procedimento nella Camera dura persino meno di quello paraguaiano: nel giro di cinque minuti, il Presidente della Camera Manuel Villar (poi sostituito dopo la messa in stato d’accusa) legge un documento in cui si dà atto alla procedura, senza necessità di un voto parlamentare. I proponenti infatti erano superiori ai 65 richiesti dalla Costituzione.
La palla passa al Senato; il Presidente del Senato viene sostituito anch’egli e si arriva al 17 gennaio, dove naufraga il procedimento. Il dibattito è incentrato sull’uso di alcuni documenti da parte dell’accusa, che evidenziano l’acquisizione di 63 milioni e mezzo di dollari da parte di Estrada. Il Senato, con maggioranza di 11-10, decide di non accettare questi documenti come prova. Anche qui polemiche e dibattiti, con le dimissioni del Presidente del Senato (eletto due mesi prima, per l’appunto) e dell’intero pool d’accusa della Camera. Estrada scappa all’impeachment, ma non può fare niente contro la rivolta popolare che lo destituirà qualche giorno dopo.
Nello stesso Paese è stato proposto il 16 marzo 2017 l’impeachment dell’attuale Presidente, Rodrigo Duterte, considerato reo di corruzione e di crimini contro l’umanità. La guerra contro la droga condotta dal Presidente ha infatti portato a ingenti omicidi stragiudiziali, illegali secondo la Costituzione filippina. È improbabile che la procedura vada a buon fine, dato il controllo degli alleati del presidente di entrambi i rami del Parlamento.
Il viaggio prosegue in Europa, in particolare in Lituania. Corre l’anno 2003 e Rolandas Paksas viene eletto Presidente della Lituania. Paksas, leader dell’allora Partito liberaldemocratico, è un outsider, ma vince il ballottaggio contro l’ex Presidente Valdas Adamkus. Ad appoggiare la sua campagna elettorale è Yuri Borisov, presidente di una compagnia aerea che ha perso la cittadinanza lituana per il suo commercio di armi con il Sudan. A corollario della gradevolissima persona si vocifera di legami con la mafia russa. La Lituania, come le altre repubbliche baltiche, non vedono di buon occhio la Russia dopo l’invasione post-seconda guerra mondiale e sono sempre preoccupati di interventi russi nella loro politica interna.
Questo non è sufficiente a far scattare la procedura di impeachment; ma l’aver ridato la cittadinanza lituana a Borisov sì. In aggiunta, Borisov parrebbe aver avuto accesso a documenti secretati tramite l’ufficio presidenziale, anche e soprattutto riguardanti le indagini a suo carico. Infine, si aggiunge l’accusa meno rilevante, cioè di ostacolo a un processo di privatizzazione. Il Parlamento mette in stato d’accusa Paksas e la Corte Costituzionale conferma.
Ma c’è un ultimo colpo di coda: Paksas annuncia di volersi ricandidare alle elezioni successive, da tenersi in giugno. Il Parlamento vota un emendamento costituzionale per bandire la rielezione entro cinque anni in caso di impeachment. La Corte Costituzionale dichiara l’emendamento incostituzionale, ma riferisce anche a Paksas che è interdetto a vita dai pubblici uffici in Lituania. Un colpo al cerchio e uno alla botte.
NON SEMPRE SI PUÒ VINCERE – I sei casi sopra citati sono tutti casi in cui l’impeachment è andato più o meno a buon fine. Ma si tratta solo di una parte. In alcuni contesti l’avvio della procedura di impeachment porta il Presidente a dimettersi. Il caso più celebre è quello di Richard Nixon, rimasto invischiato nello scandalo Watergate. Si trattava di intercettazioni illegali ai danni del Partito Democratico, che preparava la sua campagna elettorale per le elezioni del 1972 nell’omonimo hotel. Due anni di investigazioni portano all’accusa contro Nixon. Non solo era a conoscenza delle intercettazioni, ma aveva anche cercato di insabbiare lo scandalo per tenerlo lontano da sé.
All’inizio la Camera non intervenne, anche per il rischio di vuoto di potere dovuto alle dimissioni del Vicepresidente Spiro Agnew, al centro di una rete di corruzione mentre era governatore del Maryland. Ma si tratta solo di un rinvio: la nomina di Gerald Ford come vicepresidente inizia a far cadere la priorità di evitare l’assenza di un presidente. Poi si scopre dell’esistenza di intercettazioni all’interno della Casa Bianca, ma Nixon oppone l’executive privilege. Con questa formula si intende il diritto, accordato all’esecutivo, di non trasferire alcuni documenti al legislativo o al giudiziario.
La Corte Suprema, però, giudica all’unanimità l’insussistenza dell’executive privilege in questo caso (United States v. Nixon, 1974). Nixon viene accusato di ostruzione di giustizia e abuso di potere; la sua posizione è molto instabile. L’ultima picconata viene dal nastro noto come “smoking gun“, una registrazione che mostra la conoscenza del piano di insabbiamento già durante le presidenziali del 1972. Certo dell’impeachment, Nixon si dimette.
Alle volte, però, i parlamentari si fanno prendere la mano e tentano l’impeachment in casi obiettivamente meno gravi. Nel precedente articolo sulla Corea del Sud si parlò della messa in stato d’accusa di Roh Moo-hyun, accusato di aver fatto campagna elettorale per il suo partito nonostante il ruolo presidenziale imponesse imparzialità. La campagna per la destituzione fu criticata dal pubblico e rigettata dalla Corte Costituzionale, che reinsediò Roh.
Altro tentativo noto di impeachment fu quello di Bill Clinton in conseguenza dello scandalo sessuale di Monica Lewinsky. Sotto giuramento, Clinton aveva detto di non aver mai fatto sesso con la stagista. Clinton commise quindi spergiuro e intralcio alla giustizia, capi d’accusa simili a quelli di Nixon ma di fatto fondati su dati molto meno rilevanti. L’accanimento della Camera (a maggioranza repubblicana) portò alla luce succose relazioni extraconiugali di diversi deputati repubblicani, tutti schierati a favore della messa in stato d’accusa. La classica storia del chi è senza peccato scagli la prima pietra. Successivamente, il Senato bocciò la destituzione di Clinton, la mozione non raggiunse infatti i sessantasette senatori richiesti dalla Costituzione. Nei fatti non fu raggiunta neanche la maggioranza semplice, con cinque senatori repubblicani che votarono contro l’accusa di obiezione di giustizia e dieci contro lo spergiuro.
SARÀ CAPITATO ANCHE A VOI? – I casi sopra citati hanno tutti un comune denominatore: si tratta di ufficiali eletti dai cittadini che non possono essere rimossi in altra maniera, mancando ad esempio il rapporto di fiducia tra Parlamento e Presidente. Ma ci sono alcuni casi particolari meritevoli di nota che esulano da questo insieme. Un esempio possono essere i giudici, se nominati a vita e inamovibili per altre vie.
Negli Stati Uniti, nell’Ottocento, sono stati incriminati due giudici federali, John Pickering e Mark Delahay. L’accusa? Di bere troppo. Molto più interessanti sono però due casi novecenteschi. Il primo, Robert Wodrow Archbald, era membro del Tribunale Commerciale degli Stati Uniti. Nel 1912 scatta la procedura di impeachment: Archbald aveva usato la sua posizione di giudice per ricevere doni (e mazzette) dalle parti e dai loro avvocati. Furono posti ben undici capi di accusa, di cui il Senato ne confermò cinque.
Nel 1989, fu Walter Nixon (curiosamente omonimo del presidente) a cadere sotto la scure dell’impeachment. Il caso Nixon è molto rilevante perché fu portato come precedente dell’accusa contro Clinton. Nixon fu infatti rimosso per spergiuro: il giudice aveva chiesto al procuratore del Mississippi di chiudere il caso riguardante possesso di droga di Drew Fairchild, figlio di un socio di Nixon. Anche qui, forse, le accuse erano più rilevanti di uno scandalo sessuale.
Quando si tratta di eccezioni alla regola, non mancano mai particolarità in salsa tricolore. In Italia fu proposta la messa in stato d’accusa di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica tra il 1985 e il 1992, per le sue celebri picconate e per l’appartenenza a Gladio. Non si arrivò mai al voto, giacché Cossiga si dimise con due mesi di anticipo. Nel 2014, la procedura fu intentata dal Movimento 5 stelle contro l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, accusato di sei attacchi alla Costituzione, dall’espropriazione del potere legislativo (!) alla rielezione a Presidente della Repubblica (che la Costituzione non vieta). Anche questa proposta non vide l’aula parlamentare, bocciata dal Comitato Parlamentare per la messa in stato d’accusa come accusa manifestamente infondata. La particolarità è la messa in stato di accusa di un presidente scelto dal Parlamento (cioè, entro certi termini, da coloro che lo giudicano) e che ha un mandato predefinito.
Per concludere con le particolarità, va ricordato il caso rumeno. L’ex Presidente Traian Basescu è stato messo in stato d’accusa per ben due volte dal Parlamento; la prima nel 2007, la seconda nel 2012. Entrambe le procedure sono state fermate dal referendum popolare: nel primo caso, la popolazione si schierò contro l’impeachment con il 75% dei votanti. Cinque anni dopo, l’85% della popolazione si è schierato a favore dell’impeachment, ma il mancato raggiungimento del quorum per il referendum ha invalidato il risultato.
[…] di impeachment contro Ivanov il 18 maggio. La mozione non è passata, giacché in Macedonia è richiesta una maggioranza dei due terzi per attivare l’impeachment e l’opposizione poteva contare […]