Giudiziarizzazione della politica: quando le corti decidono per il Parlamento

Giudiziarizzazione della politica: impronunciabile concetto che definisce una maggiore attività di tipo politico da parte delle corti. Non si tratta delle famigerate “toghe rosse” di berlusconiana memoria: non è quindi la tendenza (deprecabile) dei magistrati a lasciare il diritto per approcciarsi alla politica parlamentare. La giudiziarizzazione è invece l’ampliamento degli spazi di policy-making delle corti: la magistratura, specie quella di grado superiore o la Corte Costituzionale, tende a disciplinare e definire settori chiave delle politiche pubbliche.

Le corti si stanno sostituendo al parlamento nel creare norme giuridiche, anche se magari non valide erga omnes (per tutti quanti). Un buon esempio è la contestata decisione del Tribunale di Trento del 23 febbraio. I giudici hanno riconosciuto la patria potestà al padre non biologico di due bambini, nati grazie allaa gestazione per altri (quella che in gergo comune è definita con l’abominevole concetto di “utero in affitto”). In questo campo il potere legislativo non ha mai deliberato a favore del riconoscimento del genitore non biologico, a maggior ragione se maschio. Anzi, l’opposizione alla gestazione per altri è stata espressa in maniera violenta nel corso del dibattito parlamentare sulle unioni civili.

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La sede del Tribunale Federale Costituzionale tedesco a Karslruhe. (Wikipedia)

PERCHÉ RIVOLGERSI ALLE CORTI? E QUANDO? – Il giudice non è quindi più la bocca della legge, citando Montesquieu, ma ha acquisito un potere che ha portato gli individui a ricercare tutela presso la magistratura. Questo processo pone due domande principali: cosa spinge i cittadini a spostarsi dalla pressione politica sul Parlamento (come il lobbying) all’azione giudiziaria? In quali campi la magistratura è più vicina alle esigenze degli individui rispetto al potere legislativo? La natura del sistema giudiziario offre la risposta a entrambe le domande. I magistrati non sono infatti eletti dal popolo, salvo casi particolari come alcune corti statali statunitensi. Si diventa giudice o per nomina del potere legislativo e/o esecutivo, o tramite concorso come in Italia. A differenza dei partiti, i magistrati non hanno il costante spauracchio delle elezioni, per cui possono affrontare temi divisivi per la popolazione senza il rischio di perdere il posto.

La conseguenza è che le corti si occupano soprattutto di diritti delle minoranze e di temi sensibili come aborto, matrimoni gay e fecondazione assistita. C’è anche una ragione tecnica: i giudici ordinari, e anche le corti costituzionali, devono decidere di questioni di tutti i tipi. Può capitare che si tratti dei famigerati animali mansuefatti che scappano nel podere del vicino (art. 925 del codice civile) o di casi di omicidio, di dibattiti infiniti sulle eredità o della risoluzione di un contratto qualsiasi. I giudici hanno quindi una conoscenza abbastanza sommaria di tutti i temi e sono specializzati in un settore solo se appartengono a magistrature specializzate, come la Corte dei Conti. I giudici quindi non hanno spesso le conoscenze sufficienti per materie tecniche come la politica fiscale e non si spingono a creare nuove normative, con l’eccezione della Corte Costituzionale tedesca.

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Il politologo Robert Dahl, tra i primi accademici ad interessarsi ai sistemi giudiziari. (Yale University)

LA GIUDIZIARIZZAZIONE NEGLI ORDINAMENTI DI COMMON E CIVIL LAW – Questo fenomeno si sviluppa in modi e tempi diversi a causa della tradizionale frattura tra ordinamenti di common law (paesi angloamericani) e sistemi di diritto civile (Francia, Germania, Italia). In paesi come Stati Uniti e Canada il precedente giudiziario è considerato fonte del diritto, cioè è una norma giuridica valida per l’intero ordinamento. Nell’America del Nord la giudiziarizzazione si sviluppa prima ed è in questi paesi che vengono effettuati i primi studi politologici sul sistema giudiziario. Nel 1957 Robert Dahl (1915-2014) scrisse un interessante saggio sulla Corte suprema statunitense e i suoi processi decisionali che hanno dato il la a sessanta anni di studi accademici. Gli Stati Uniti sono quindi la patria della ricerca sulla giustizia ma sono anche uno dei paesi dove le corti hanno mostrato maggiore attivismo e intraprendenza.

La tutela dei diritti delle minoranze si sviluppa a partire dagli anni Cinquanta. Nel 1954 la Corte Suprema con voto unanime proibisce la segregazione razziale nel sistema scolastico (Brown v. Board of Education). Il Presidente Earl Warren abbatte quindi i primi mattoni del muro che separa bianchi e neri negli Stati Uniti, dieci anni prima del Civil Rights Act proposto da Kennedy e un anno prima del celebre episodio di Rosa Parks. Mentre la politica si occupava finalmente di smantellare il muro, nel 1967 il giudice supremo riconobbe la possibilità di sposarsi alle coppie di etnia mista con la sentenza Loving v. Virginia.

Dopo gli afroamericani, la Corte si muove a difendere la parità tra i sessi, in particolare con la sentenza più contestata della storia statunitense: Roe v. Wade (1973), che introduce il diritto delle donne ad abortire. Il dibattito ancora aperto su Roe porta in evidenza la principale controindicazione della giudiziarizzazione. I tribunali possono infatti precorrere troppo i tempi e scatenare un’ondata di rigetto (backlash) che nuoce alle minoranze che si intende tutelare.

Oltre all’aborto, anche la difesa dei diritti LGBT ha scatenato ondate di reflusso dal 1993 fino all’avvento della presidenza Obama. In questo campo la Corte Suprema (e i tribunali statali) hanno disciplinato l’intera materia; dalle norme anti-discriminazione (Romer v. Evans, 1996) all’abolizione delle leggi anti-sodomia (Lawrence v. Texas, 2003), dall’abrogazione della legislazione anti matrimonio egalitario (Windsor v. United States, 2013) al riconoscimento del matrimonio gay in tutto il territorio statunitense (Obergefell v. Hodges, 2015). Anche in Canada il riconoscimento del matrimonio same-sex è iniziato per via giudiziaria, in otto province su dieci, prima dell’adozione del Civil Marriage Act nel 2005. Le corti non si mostrano però favorevoli a tutte le istanze etiche o relativi alle minoranze: in Washington v. Glucksberg (1997), la Corte Suprema ha deciso all’unanimità che l’eutanasia non è una libertà protetta dalla Costituzione.

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La Corte Costituzionale colombiana a Bogotà.

LA GIUDIZIARIZZAZIONE NEGLI ORDINAMENTI DI CIVIL LAW – Qualche anno più tardi, la giudiziarizzazione ha iniziato a diffondersi anche in alcuni ordinamenti di civil law, in misura più o meno estesa. Il Paese capofila è la Colombia: in questo paese i cittadini possono adire direttamente la Corte Costituzionale senza bisogno di avvocati (azione di tutela, art. 86 della Costituzione). Ha quindi un canale diretto e aperto con la popolazione, che è spinta a chiedere tutela al potere giudiziario e ha favorito la giudiziarizzazione.

Non solo la Corte ha approvato normative anti discriminazione su basi etniche (dal 2005), ma ha anche introdotto il diritto di aborto (C-355/2006), la fecondazione assistita (T-274/2015), la cd. Stepchild adoption per le coppie gay (SU-617/2014), il diritto fondamentale dell’individuo per l’acqua (T-616/2010), il matrimonio gay (SU-214/2016) e persino l’eutanasia (C-239/1997 e T-970/2014) e il possesso e l’uso di marijuana (C-221/1994). Lo sconfinamento della Corte nei territori parlamentari è evidente con la sentenza C-577/2011, che poneva due vincoli all’autonomia legislativa. Il primo era un vincolo temporale: i giudici imponevano alle Camere di approvare una legislazione sul matrimonio gay entro il giugno 2013. In caso di inadempienza, e qui scatta il secondo limite, i magistrati erano autorizzati dalla Corte stessa a unire le coppie in matrimonio.

In Italia il processo di giudiziarizzazione è ancora in via di sviluppo; la Corte Costituzionale ha infatti chiesto al legislativo di creare una legislazione sulle unioni civili con le sentenze 138/2010 e 170/2014, senza però spingersi a introdurle direttamente. Tuttavia, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità di una parte della legge 40 sulla fecondazione assistita (sentenza 229/2015) e soprattutto ha mostrato sprazzi di attivismo in materia di legge elettorale.

Arthur Chaskalson. primo presidente della Corte Costituzionale sudafricana (Gallo)

GIUDIZIARIZZAZIONE E MEGA-POLITICS – Le corti hanno iniziato a espandere la propria area di controllo anche alla cd. mega-politics, così definita dal politologo Ran Hirschl. Si tratta delle norme principali di un ordinamento: la Costituzione, le leggi elettorali e tutte le norme su cui si fonda uno Stato. Un caso particolarmente limite è quello sudafricano: dopo la fine dell’apartheid, il Partito Nazionale e l’African National Congress (guidati rispettivamente da de Klerk e Mandela) si accordarono su una Costituzione ad Interim nel 1993, i cui principi avrebbero dovuto ispirare l’Assemblea Costituente. A giudicare la rispondenza della nuova Carta ai valori di quella ad Interim era la neo-istituita Corte Costituzionale, che in prima battuta bocciò la proposta dei legislatori.

Nel campo della legislazione elettorale, si è vista la propensione dei giudici italiani a modificare le leggi elettorali. Ma negli Stati Uniti il giudice di ultima istanza ha persino deciso i risultati di un’elezione. Nel celebre caso Bush v. Gore (2000), la Corte Suprema si trovò a giudicare la legislazione elettorale della Florida, lo stato decisivo per la vittoria di Bush che era stato vinto per appena 1784 voti. La corte suprema dello stato aveva ordinato un riconteggio dei voti, ma quella federale fermò il controllo adducendo una violazione del Quattordicesimo Emendamento (Equal Protection clause). È interessante notare come le due anime della Corte (conservatrice e progressista) abbiano votato all’opposto di quanto la loro filosofia giurisprudenziale richiederebbe. I giudici conservatori, i quali tendono di norma a rifiutare qualsiasi intervento nel diritto statale, si schierarono per la violazione del Quattordicesimo Emendamento, mentre i progressisti, di norma favorevoli all’intervento nelle questioni statali, si richiamavano al non intervento. Cosa può fare la vicinanza politica a un candidato…

Una decisione sempre di mega-politics è quella operata dalla Corte Suprema inglese lo scorso gennaio, quando ha imposto alla premier Theresa May di ottenere un mandato parlamentare per avviare la procedura di uscita dall’Unione Europea.

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Sergio Mattarella, ex giudice costituzionale e oggi Presidente della Repubblica. (ANSA)

E LA POLITICA CHE FA? –  È evidente che il sistema giudiziario stia ampliando i propri margini di azione a scapito del parlamento; meno scontato è che alla politica stia bene. In una certa misura è così: se le corti decidono su temi contrastati, tolgono la patata bollente ai partiti che non rischiano batoste elettorali. In caso contrastino le sentenze, le forze politiche hanno la possibilità di usare il giudiziario come capro espiatorio, come fatto (per ragioni differenti) da Berlusconi e dal suo odio per le già citate “toghe rosse”. Tutto bene e tutti felici, insomma. È molto preoccupante però il silenzio della politica sugli interventi giudiziari in materia di mega-politics. Alle prossime elezioni politiche in Italia si andrà probabilmente a votare con un sistema elettorale che è stato definito dalla Corte Costituzionale, tra le varie acclamazioni di giubilo dei leader d’opposizione.

La giudiziarizzazione si può quindi trasformare in una certa misura in un pericolo per la democrazia: da un lato perché i giudici potrebbero decidere di avocare il potere a se stessi, dall’altro perché un Parlamento incapace di decidere sulle regole fondamentali di un ordinamento è fondamentalmente inutile e rischia di portare a una nuova stagione autoritaria.

Ludovico Mark Capparelli
Sono dottorando in Fisica alla Sapienza di Roma, dove svolgo ricerca su cosmologia primordiale e particelle elementari. Ho lavorato come Teaching Assistant alla UCLA. Sono fondatore di Bunte Kuh e mi occupo della divulgazione scientifica.

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