Brexit: cose che non avremmo voluto vedere – Il ritorno

Giovedì otto giugno si vota nel Regno Unito. Si tratta delle prime elezioni politiche dopo la Brexit. Impossibile fare previsioni accurate: la legge elettorale inglese è un maggioritario di tipo plurality e la percentuale nazionale conta zero, mentre sarebbe più utile analizzare i possibili risultati nel collegio di Brighton (e negli altri 649 seggi).

Tuttavia, queste elezioni hanno un grande significato: sono l’ennesimo step nell’evoluzione della demenza senile che sta affliggendo la democrazia più antica del mondo da un anno a questa parte. A febbraio si erano raccontate le prime fasi di questo delirio, di cui non ci sono vincitori ma solo vittime. Quattro mesi dopo, i tempi sono maturi per replicare.

Lord Heseltine brexit
Lord Michael Heseltine, ex ministro nei governi Thatcher e Major, è stato anche consulente per il governo May. È stato licenziato per aver contravvenuto alla disciplina di partito nel voto sulla Brexit: che dire, persino un ottantaquattrenne ha più palle (e coscienza) di Theresa May. (AFP/Daniel Leal Olivas)

ANCHE I LORDS CONTANO – Nella puntata precedente, eravamo rimasti al voto della Camera dei Comuni che dava carta bianca al governo di Theresa May. Con l’aiuto di Jeremy Corbyn, il primo ministro sarebbe stato in grado di portare avanti le negoziazioni con l’Unione Europea (la cd. Brexitsenza la necessità di dover rendere conto al Parlamento. Sempre in barba a cinque secoli di tradizione costituzionale. Ma il voto deve passare alla Camera dei Lord. Si tratta dell’altro ramo del parlamento inglese, che non viene eletto dai cittadini e – per una parte – è addirittura un titolo ereditario. I suoi membri non necessitano dell’approvazione dell’elettorato o anche solo del governo. Forse è per questa ragione che i Lord sono riusciti a guidare una fronda contro Theresa May.

Il 7 marzo, infatti, passa alla Camera dei Lord un emendamento alla proposta di legge governativa. Viene richiesto, infatti, che il Parlamento sia chiamato a votare sull’accordo per la Brexit. Scandalo e ludibrio, anche perché di norma la Camera dei Lords tende a ratificare le scelte dei Comuni. Il governo insorge: ciò potrebbe legare le mani ai negoziatori (il segretario per la Brexit David Davis, inaffidabile già per il nome uguale al cognome). Soprattutto, il governo non potrebbe uscire dall’Unione Europea senza un accordo (cd. hard Brexit), se è necessaria la ratifica del Parlamento.

A pagare è il capo della fronda, Lord Heseltine, un giovane ottantaquattrenne che reputa sbagliato dare il potere al Governo per sempre e in ogni circostanza. Insomma, ha proposto l’introduzione dei decreti legislativi in Gran Bretagna. L’ex ministro aveva infatti un ruolo di consulente presso il governo. Per l’esecutivo era impossibile avere consulenti che rispettassero le tradizioni costituzionali, evidentemente.

Ma il terrore di Theresa May è comprensibile: la maggioranza alla Camera dei Comuni è molto risicata (appena trenta deputati) e c’è il rischio che si formi una fronda anche lì, guidata dall’ex ministro Anna Soubry. In più, questo era il secondo emendamento posto al governo dopo il riconoscimento dei diritti dei cittadini UE residenti in Inghilterra. Preoccupazioni inutili, visto che il 13 marzo entrambi gli emendamenti sono stati rigettati dalla Camera dei Comuni e poi dai Lord. Indovinate grazie a chi? Ma ovvio, grazie ai Lord laburisti.

Michelle O’Neill, capo del Sinn Fein, partito nazionalista irlandese che è il punto di riferimento per i cattolici dell’Irlanda del Nord. (Paul McErlane/AFP)

UN REGNO NON COSÌ UNITO – Ovviamente non c’è pace sotto gli ulivi sotto il governo, senza neanche il tempo di festeggiare per la vittoria sul Parlamento che vuole porgli dei limiti. Già prima del voto alla Camera dei Comuni, infatti, Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese e leader dello Scottish National Party (SNP) ha tenuto una conferenza stampa in cui si proponeva un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese. La Scozia, infatti, ha votato in maniera compatta a favore del Remain nel referendum sulla Brexit. In più, Sturgeon ha accusato il governo di non aver ascoltato minimamente le richieste della Scozia (e dell’Irlanda del Nord) sul tema. Questo porta al proporre un referendum a distanza di neanche tre anni dal precedente, dove aveva vinto la volontà di restare nel Regno Unito. Ma visti i cambiamenti in atto e la sempre maggiore frattura tra Scozia e Westminster, non sorprende che sembrino passati trent’anni.

Immediata la risposta del governo: se lo scordino. L’intera amministrazione ha condannato il gesto della leader scozzese, accusandola di «giocare a far politica». Sarebbe anche intenzionata a sfruttare qualsiasi situazione per portare avanti l‘ideologia indipendentista. Effettivamente l’esecutivo, allo stato attuale delle cose, non è abituato ad avere un’opposizione: subito Corbyn e i Liberaldemocratici hanno infatti dichiarato di essere contrari a un secondo voto in Scozia. I Libdem hanno velatamente messo in guardia la Scozia dal rischio di rimanere fuori dall’Unione Europea e dal Regno Unito, mentre Corbyn, che più che di sinistra sembra democristiano, ha detto che lui è contrario ma che lo appoggerà se il Parlamento scozzese deciderà per il referendum, da tenersi in caso nella primavera del 2019.

Come prevedibile, il 28 marzo il Parlamento scozzese ha approvato la proposta di Sturgeon, il giorno prima che Theresa May dichiarasse l’avvio della procedura di Brexit. Ma la Scozia non è l’unico problema per il governo.

Referendum Brexit
I risultati in Scozia e Irlanda del Nord del referendum sulla Brexit. Più l’arancione è scuro, più è alta la percentuale al favore del Remain. Oltre a queste due regioni, ha votato a favore del Remain anche Gibilterra. (Wikipedia)

Il 14 marzo, infatti, anche il partito irlandese Sinn Fein ha dichiarato il desiderio di votare perché l’Irlanda del Nord lasci il Regno Unito. Questo è avvenuto dopo le elezioni legislative del 2 marzo, dove il partito nazionalista ha ottenuto 27 seggi contro i 28 degli unionisti inglesi (DUP). Come in Scozia, anche i nordirlandesi si sono schierati con una certa nettezza contro la Brexit. Soprattutto perché ci sono moltissimi rapporti (economici e di circolazione di persone) con il resto dell’Irlanda. Questo perché fanno parte della stessa isola.

Questo in un contesto in cui c’è una forte divisione etnico-religiosa tra pro-unionisti e nazionalisti irlandesi. Inoltre, è impossibile dimenticare che si tratta di un territorio che è stato devastato dal terrorismo dell’IRA e che ha vissuto in pratica in uno stato d’assedio fino al 1998, quando fu firmato l’Accordo del Venerdì Santo e l’IRA si sciolse. Ma la Brexit, dicono i nazionalisti, porterebbe alla chiusura delle frontiere con l’Eire e non si potrebbe escludere una rinascita di un movimento nazionalista terroristico.

Il Remain ha vinto anche a Gibilterra, e il governo spagnolo ne ha approfittato per riaffermare la disputa con il Regno Unito sulla piccola dipendenza inglese. Gibilterra è infatti un lembo di terra (o meglio, una specie di scoglio) parte della penisola iberica. La Spagna ha infatti detto che un qualsiasi accordo sulla Brexit potrà essere raggiunto solo se si troverà una soluzione alla disputa su Gibilterra, altrimenti la Spagna sarebbe pronta a porre il veto. Questo per non far fare solo agli inglesi la figura degli idioti. Inutile dire che la posizione spagnola era più una provocazione che altro.

Non è l’unico punto su cui ci sono state frizioni tra Spagna e Regno Unito. Il 2 aprile, infatti, il ministro degli Esteri spagnolo Alfonso Dastis ha detto che non si opporrà a un ingresso della Scozia nell’Unione Europea se ci dovesse essere una secessione secondo la legge. Nel 2014, infatti, la campagna per il No aveva usato la Spagna come spauracchio contro l’indipendenza.

Il paese iberico ha infatti problemi con gli indipendentisti catalani e è intenzionato a fare di tutto per impedire la creazione di un precedente. Come se non bastasse vietare i referendum sul tema. Ma il problema non si pone se è un paese esterno all’Unione che dichiara l’indipendenza e chiede l’ingresso, come già successo con la Slovenia e la Croazia. Inoltre, la posizione spagnola può avere un certo peso come bargaining per i negoziati post-Brexit.

david davis brexit
David Davis, segretario alla Brexit, è incaricato di condurre le negoziazioni con l’Unione Europea per l’uscita ex art. 50. La sua fama deriva dall’incredibile connubio nome-cognome, che non può che raffigurare un genio vero. (Daniel Leal-Olivas/AFP)

EUROPA UNITA, UN SOGNO CHE DIVENTA REALTÀ – In ogni caso, la Brexit prosegue senza vedere stop. Il 29 marzo 2017 Theresa May ha inviato una lettera al presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, per richiedere l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea. Con questa formula molto elegante si intende l’uscita di un paese dall’organizzazione, fatto mai avvenuto prima. Questo se si esclude la Groenlandia, che però ha una popolazione più vicina a Gibilterra che a una qualsiasi regione inglese.

La missiva è giunta appena quattro giorni dopo i festeggiamenti per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, il primo nucleo dell’Unione Europea. Due anni dopo, nella primavera del 2019, è prevista l’uscita definitiva del Regno Unito dall’Unione. Nel frattempo, la Commissione si prepara a delle riforme per spingere verso una maggiore integrazione. Sono evidentemente affranti dalla dipartita inglese, manca solo il prosecco.

A rappresentare la Perfida Albione nei negoziati sarà David Davis, segretario per la Brexit nel governo May. Dall’altra parte della barricata, invece, ci sarà Michel Barnier, ex Ministro degli esteri francese (tra il 2004 e il 2005) e due volte commissario presso la Commissione Europea. Il Corriere della Sera, Svetonio dei nostri giorni, evidenzia i rapporti contrastati tra i due, nati alla metà degli anni Novanta. Davis e Barnier erano ministri per le Politiche Europee dei loro paesi ed erano quindi costretti a incontrarsi spesso. Si dice che Barnier avesse soprannominato l’omologo inglese come Monsieur Non, Signor No.  Un soprannome che è stato subito confermato dai fatti.

Il 3 maggio, infatti, Davis si è schierato nettamente contro l’ipotesi che il Regno Unito debba pagare un salvacondotto di 100 miliardi di euro. Questa cifra servirebbe a soddisfare alcuni conti in sospeso con Bruxelles, tra cui le spese che il Regno Unito dovrebbe versare al bilancio dell’Unione essendo ancora stato membro.

Non c’è da sorprendersi: una settimana prima, il presidente della Commissione Juncker aveva partecipato a una cena con Theresa May. La leader inglese ha subordinato l’approvazione dei pagamenti a discussioni sui rapporti commerciali con l’Unione, una posizione miope che ha lasciato di stucco Juncker.

Michel Barnier negozierà i dettagli del divorzio tra Unione Europea e Regno Unito, rappresentando gli ormai Ventisette al tavolo delle trattative. (AFP)

Non sono però solo i soldi a infiammare il dibattito. Alla fine di aprile si è innescata una polemica sul futuro dell’Agenzia Europea del Farmaco (Ema) e l’Autorità Bancaria Europea (Eba). Si tratta di due agenzie (su quarantacinque) dell’Unione Europea, che hanno sede in Regno Unito e che dovranno traslocare con la Brexit. A Bruxelles si vorrebbe questo trasferimento il prima possibile, mentre il governo May vorrebbe mantenerla nel suo territorio il più a lungo possibile, magari anche dopo l’uscita dall’Unione. Questo perché le due agenzie hanno un buon numero di dipendenti e generano indotto economico. Sono voti e soldi.

I negoziati saranno senza dubbio difficili, perché le priorità sono molto differenti. Ciò che interessa a Bruxelles è il mantenimento dei diritti dei cittadini dell’Unione residenti nelle isole britanniche. Londra, invece, ha la priorità di eliminare la libertà di circolazione, considerata la vera causa della vittoria del Leave. Il migliore accordo possibile per loro sarebbe la permanenza nel mercato unico senza gli svantaggi dell’immigrazione, la classica botte piena con moglie ubriaca annessa. Se le sue richieste non fossero accolte, il governo inglese sarebbe pure pronto ad abbandonare il tavolo senza un accordo. Nichilismo e caos, ma senza immigrati.

Dall’opposizione arriva la sorpresa di giornata. Il leader laburista Jeremy Corbyn ha delineato come priorità il mantenimento del mercato unico e il sostegno dell’economia. Questo potrebbe portare anche ad accettare la libertà di circolazione, un po’ come la Norvegia. Ma niente paura, i laburisti non si sono svegliati! Subito dopo, Keir Stamer, il portavoce del partito, ha corretto il tiro, dicendo che in ogni caso non si esclude la possibilità di eliminare la libertà di circolazione. Vale a dire, promuovere la stessa posizione del governo. Good job!

Il leader laburista Jeremy Corbyn pone l’ennesimo braccio in aiuto di Theresa May, approvando le elezioni anticipate. (Spoiler: potrebbe aver avuto ragione!)
(AFP/Geoff Caddick)

ALMENO LORO VOTANO – Il che porta all’ultima brillante idea di Theresa May: andare ad elezioni anticipate. La proposta è stata fatta in una conferenza stampa il 18 aprile, con le votazioni da tenersi neanche due mesi dopo. L’annuncio della May ha creato un certo scalpore. D’altronde, lei aveva promesso che non si sarebbero tenute elezioni anticipate in ben cinque occasioni diverse. L’ultima appena un mese prima. La legislatura sarebbe infatti terminata nel maggio del 2020, cioè tra tre anni.

In sé l’idea poteva anche essere giusta. May ha una maggioranza risicata e un partito diviso in Parlamento e i due emendamenti approvati dalla Camera dei Lord non le davano sicurezza. In Scozia e in Irlanda del Nord brontolano, e si sente ancora più debole nel portare avanti la Brexit a ogni costo. Le elezioni nel 2020 la avrebbero costretta a negoziare gli accordi finali in campagna elettorale e questo avrebbe messo sotto attacco i Tory. In più i Conservatori hanno oltre venti punti di vantaggio sui laburisti nei sondaggi. Si prospetta una maggioranza coesa, con la legittimazione popolare e la distruzione del partito di opposizione. Per questo, May intraprende la via che aveva promesso non avrebbe mai preso.

C’è un inghippo: il Parlamento ha approvato nel 2011 il Fixed-term Parliaments Act. La legge richiede il raggiungimento di una maggioranza dei due terzi per sciogliere il Parlamento. È una norma atta ad impedire il ritorno alle urne per ragioni di mero calcolo politico – ad esempio, sondaggi particolarmente favorevoli. Toh, si tratta di una legge per evitare proprio questo caso! May non ha una maggioranza dei due terzi e questo potrebbe far fallire il suo meraviglioso progetto. Ma, ancora una volta, Corbyn va in suo aiuto e vota a favore delle elezioni anticipate. Inutile dire che la fervente e democratica leader dei Tory è intenzionatissima ad abrogare il Fixed-term Parliaments Act in caso di vittoria alle elezioni.

Manifesto Tory Brexit
Il Manifesto Tory pietra dello scandalo. E con una copertina del genere è tutt’altro che sorprendente. (The Guardian)

Sembra incomprensibile la mossa di Corbyn: i Laburisti sono al minimo storico e rischiano di prendere la più grande batosta elettorale dell’ultimo secolo. In più continuano a scavarsi la fossa da soli da prima del referendum sulla Brexit. L’unica spiegazione è che Corbyn abbia visto l’occasione di sconfiggere Theresa May. Ma il 18 aprile 2017 le possibilità sono nulle, inferiori persino a una vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti prima delle primarie in Iowa. Eppure

Theresa May inizia a incappare in una serie di gaffe elettorali che minano il suo tesoretto di voti. Il primo tentativo suicida è la classica riduzione del welfare portata avanti dai governi conservatori. A pagare sarebbero gli anziani, in particolare quelli del ceto medio, perché dovrebbero pagarsi da soli le proprie cure e la propria assistenza. In pratica, la proposta va ad attaccare uno zoccolo duro dell’elettorato Tory. Come prevedibile, i pensionati sono furiosi con la leader, e tutto questo a poco più di due settimane dalle elezioni.

La risposta alla «dementia tax», come è stata definita dai Laburisti in un raro momento di lucidità, è stata unanime e negativa. Theresa May ha quindi fatto un’inversione a U degna di Berlusconi, ritrattando la sua proposta e dicendo che ci sarà un limite sotto il quale questa tassa non avrà effetto. Ovviamente la premier non ha definito tale limite, comportando solo ulteriore sfiducia nella sua figura. E per non fare la figura della banderuola, ha anche aggiunto che non cambiava niente. Molto convincente.

L’altra scelta brillante di May è di non partecipare ai dibattiti televisivi pre-elezioni. La ragione è presto detta: osservando una qualsiasi intervista di May, è evidente che sia in netta difficoltà a spiegare le sue ragioni. Con la stampa, in televisione per interviste singole, nei comizi: Theresa May sembra sempre molto insicura. Sono comprensibili le difficoltà sulla «dementia tax», visto che si è andata a infilare in un vicolo cieco.

Tim Farron, leader dei Liberaldemocratici. Nonostante siano l’unico partito contrario alla Brexit, non sono riusciti a coagulare consenso attorno a loro. Questo nonostante i meravigliosi manifesti anti-Tory.
(AFP/Ben Stanstall)

Meno accettabili sono le scuse, poco sentite, per giustificare le elezioni anticipate. Veramente pensava che nessuno avrebbe battuto in campagna elettorale sulla sua promessa di non andare a elezioni? Ma certo: May ha scelto come stratega per la campagna elettorale Jim Messina, colui che ha organizzato la prima campagna elettorale di Obama e da allora non ne ha vinta mezza. Piccolo dettaglio: al referendum della Brexit, Messina faceva la campagna per il Remain e Theresa May era tiepidamente per la permanenza nell’Unione. Come si cambia…

L’ultimo punto che ha messo in difficoltà May sono gli attacchi terroristici a Manchester e Londra nelle ultime settimane, dopo che c’era stato un altro attentato davanti al Parlamento a marzo. Questi attentati hanno fatto svanire anche l’ultimo barlume di sicurezza che si potesse avere nel governo: tutto questo con al governo l’ex ministro degli Interni, famoso per il suo pugno di ferro. E Corbyn ne ha immediatamente approfittato per ricordare il licenziamento di oltre ventimila poliziotti mentre May era il ministro responsabile.

Non che il problema terrorismo non sia spinoso anche per Corbyn, che si è fatto attaccare persino da Boris Johnson. Quest’ultimo l’ha infatti definito amico di tutti i nemici del Regno Unito, compresi i terroristi, per la sua indole antimilitarista.

In ogni caso, la battaglia sembrerebbe molto risicata secondo i sondaggi, con percentuali ormai simili tra Tory e Laburisti. I sondaggi vanno però presi con moltissime pinze, visto che tendono ad avere un bias a favore dei Laburisti e tendono a sovrarappresentarli. Questo effetto è definito dello «Shy Tory». In ogni caso, è tutto molto aperto e non si può prevedere con sicurezza quanti seggi di maggioranza potrebbe avere Theresa May. Ma se perdesse anche solo un seggio, sicuramente la sua testa sarebbe la prima a cadere.

Alessio Agostinis
Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università di Roma - La Sapienza e in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Bologna - Polo di Forlì. Sono fondatore di BunteKuh e sto studiando per un Master in Marketing, Comunicazione e Made in Italy del CSCI.

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17 Giugno 2017 12:21 pm

[…] Mentana) la settimana scorsa è stata pregna di eventi. Giovedì 8 si sono tenute le elezioni in Regno Unito, dove Theresa May ha perso la sua maggioranza e si è affidata a un’improbabile alleanza con […]

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