Jair Bolsonaro è il nuovo presidente del Brasile. Un’eventualità già nell’aria, ma non per questo innocua per il popolo brasiliano e il resto del mondo. L’ex militare ha fatto proprio il seggio più alto del Paese al termine di una campagna elettorale delirante: commenti inappropriati, minacce, revanscismo fascista, bufale su larga scala.
Se non vivessimo già nell’era dei vari Trump, Johnson e Salvini affermeremmo che un personaggio come Bolsonaro non sarebbe mai eletto. Ma così non è: e dall’antifona Jair Bolsonaro rischia di rivelarsi un personaggio addirittura più dannoso degli altri citati, un pericolosissimo connubio tra neofascismo e ultraliberismo di cui il mondo non aveva affatto bisogno.
LE RADICI MARCE DELLA POLITICA BRASILIANA – Jair Bolsonaro è stato eletto al culmine di un periodo politicamente disastroso per il Brasile: l’ultima presidentessa votata dai carioca è stata Dilma Rousseff, entrata nella storia come prima donna democraticamente eletta a subire un procedimento di impeachment. La Rousseff fu accusata di condotta criminale relativamente a questioni di budget federale, in particolare per il suo ruolo nello scandalo Petrobras: un sistema di tangenti, riciclaggio e appalti illegali passante per la compagnia petrolifera di Stato.
Lo scandalo sviscerò la profonda corruzione nel partito socialista brasiliano (PT, Partido de Los Trabajadores), ma senza porvi un freno. Anche il predecessore della Rousseff, infatti, era caduto vittima dello scandalo e della relativa inchiesta giudiziaria Lava Jato (“autolavaggio”). Luiz Inácio Lula da Silva, eletto per due mandati consecutivi, aveva governato dal 2003 al 2010: oggi è oggetto di condanna penale definitiva, che gli ha impedito di ricandidarsi per le ultime elezioni.
Se Lula fu sì controverso e corrotto, ma potente e popolare presso il pubblico, Michel Temer è stato invece solo controverso e corrotto. Questi, vicepresidente sotto la Rousseff, la sostituì d’ufficio nel 2016: vennero subito alla luce i tentativi fatti dal suo esecutivo per mettere i bastoni tra le ruote all’investigazione. Egli, che aveva pensato di ricandidarsi per evitare processi, fu punito con una (generosa) interdizione di otto anni dai pubblici uffici. Temer è rapidamente diventato il presidente brasiliano più impopolare di sempre, anche a causa delle sue misure di austerity e anti-sindacali.
UNA SPORCA CAMPAGNA ELETTORALE – Bolsonaro entra in scena a questo punto della storia: l’interdizione di Lula ha portato alla candidatura per il PT di Fernando Haddad: un politico debole, poco carismatico, con addosso tutto il peso di uno scandalo decennale. La sua campagna elettorale si è addirittura basata sul fatto di essere un sostituto dell’ex presidente, con lo slogan Haddad è Lula, Lula è Haddad, solo parzialmente rivisto poco prima della chiamata alle urne. Inutile dire che Haddad abbia sprecato la posizione dominante del PT, ancora solida nonostante gli scandali.
Si può dire insomma che sia stata la “vecchia politica”, come altrove, a consegnare il Paese a una forza populista e distruttiva. E, proprio come altrove, a raccoglierne i profitti è stato un sedicente, carismatico outsider che in realtà non è affatto tale. Come Donald Trump (parte dell’establishment americano, amico personale dei Clinton e in lizza per la candidatura sin dagli anni Ottanta), come Matteo Salvini (in politica con la Lega dal 1990, e lungo tutto il berlusconismo), così anche Jair Bolsonaro.
Ex capitano dell’Esercito, consigliere comunale di Rio de Janeiro dal 1988 al 1991, ha cambiato numerose casacche nel corso dei suoi ventisette anni di carriera da parlamentare. È stato membro di otto partiti diversi, tutti nell’area della destra conservatrice e cristiana, prima di approdare al partito social-liberale (PSL, Partido Social Liberal) di cui oggi è leader.
Al comando della lista Brasile su tutto, Dio su tutti, Bolsonaro ha percorso a grandi falcate la strada per la presidenza; una via costellata dalle reazioni alle sue dichiarazioni odierne e passate, e alle pericolose idee di cui intende farsi tedoforo. Il mondo intero ha seguito la folle campagna con preoccupazione – ma purtroppo, visti i tempi, non con inedito stupore. Frasi di ieri e di oggi sono balzate da un angolo all’altro del globo, suscitando sdegno.
Come per quella frase del 2008, quando Bolsonaro affermò che «l’errore della dittatura militare è stato quello di torturare e non uccidere gli oppositori». Concetto già ben formato ed espresso nel 1999: in quell’occasione aggiunse che, se un giorno fosse diventato presidente, avrebbe fatto «un colpo di stato il giorno stesso».
Un altro orribile riferimento alla dittatura brasiliana degli anni Sessanta-Ottanta fu proferito in occasione dell’impeachment verso la Rousseff, che in passato fu guerrigliera: Bolsonaro dedicò il suo voto – pro-impeachment – al soldato che a quel tempo la torturò. E poi via con tutto il meglio del peggio di Bolsonaro che si è avuto modo di conoscere in questo periodo: sui rifugiati («la feccia della terra si sta facendo vedere in Brasile»), sui gay («preferirei che mio figlio morisse in un incidente piuttosto che presentarsi con un tipo con i baffi»), sui neri («Non corro il rischio di vedere i miei figli uscire con donne nere. Sono molto ben educati») e sulle donne («Ho detto che non ti violenterei perché non te lo meriti [rivolto a una stessa deputata di sinistra, due volte a distanza di 11 anni, NdA]»).
Non che la campagna vera e propria sia stata caratterizzata da toni meno intensi, a partire dall’enorme quantità di bufale populiste diffuse su WhatsApp, per arrivare all’attentato a Bolsonaro dello scorso 6 settembre: il leader di estrema destra è stato accoltellato durante un comizio, da un uomo che si è detto «inviato da Dio». Da allora Bolsonaro ha evitato il confronto pubblico con gli avversari politici, pur senza rinunciare ai comizi.
Dopo la vittoria di Bolsonaro al primo turno, anche i toni tra i cittadini si sono fatti violenti: in generale, sembra che la polizia abbia operato in modo intimidatorio verso chi protestava contro Bolsonaro. Due episodi, in particolare, sono stati gravissimi per un Paese che si definisce democratico: il 27 ottobre, un 23enne di Fortaleza è stato ucciso mentre partecipava a una manifestazione organizzata dal PT. Inoltre, una ragazza che indossava una maglietta con lo slogan contro Bolsonaro, Ele Não (“non lui”), è stata immobilizzata da tre sostenitori del neo-presidente e le è stata incisa una svastica sul ventre. La polizia non ha perseguito la vicenda come crimine d’odio, poiché «la svastica è un simbolo buddista di pace».
DISORDEM E REGRESSO – La polizia, come l’Esercito che ha festeggiato in strada saputo l’esito del ballottaggio, è sostenitrice delle misure repressive promosse da Bolsonaro. Il Brasile, com’è noto, è un Paese afflitto da estrema violenza e criminalità. Tanto che uno dei controversi atti di Temer è stato quello di dare all’Esercito il via libera per la lotta alla criminalità nelle strade, cosa che in una democrazia non è mai un buon segno.
Con Bolsonaro, si preannuncia il passaggio a un altro livello di cose: il cavallo di battaglia elettorale del nuovo presidente è stato la promessa di liberalizzare le armi da fuoco per tutti i cittadini, per potersi difendere in autonomia dai delinquenti. In un Paese dove l’anno scorso si sono verificati più di 60mila omicidi, non sembra proprio una grande idea.
Desfile do Exército com apoiadores de Bolsonaro agora de noite em Niterói mostra que a democracia está em risco. Vai ter resistência! Vamos sem medo! pic.twitter.com/Zeb9LVl7Ly
— Guilherme Boulos (@GuilhermeBoulos) 29 ottobre 2018
Inoltre Bolsonaro, nel pieno di questa retorica da guerra civile, ha costellato la campagna di minacce verso gli avversari e chiunque sia parte della “vecchia politica” (a parte se stesso, s’intende). Gli oppositori «dovranno andarsene o finire in galera», e «l’esercito e la polizia li rimetteranno in riga».
Oltre le minacce, qualcosa di inquietante sta già accadendo: qualche giorno fa, la polizia militare ha invaso venti università del Paese allo scopo di confiscare materiale sulla storia del fascismo, rimuovere striscioni antifascisti (in quanto “propaganda elettorale”) e interrompere le lezioni a causa del “contenuto ideologico”.
È altresì prevedibile che vengano distrutti i meccanismi di tutela delle donne e delle minoranze: al di là degli esempi classici, come il diritto all’aborto o al matrimonio omosessuale, il Brasile è un Paese che necessita di misure per l’inclusione e la protezione tanto degli indigeni che degli afro-brasiliani. Misure che ora rischiano di scomparire per un motivo ben più pressante, dietro la propaganda ideologica del razzismo: quello dello sfruttamento delle riserve, delle foreste e delle risorse minerarie brasiliane.
Nel programma di Bolsonaro figurano addirittura l’eliminazione del Ministero dell’Ambiente e l’uscita dagli Accordi di Parigi, che farebbe eco a quella voluta da Trump negli Stati Uniti. Le motivazioni sarebbero di sovranità nazionale, che secondo Bolsonaro andrebbe persa assieme al diritto brasiliano di sfruttare l’Amazzonia: «[si tratta di] 136 milioni di ettari dei quali perderemmo il controllo. Se dobbiamo consegnare 136 milioni di ettari, me ne tiro fuori». In una fase come questa del dibattito sull’ambiente e sul riscaldamento globale, è subito evidente quanto una simile notizia sarebbe drammatica per l’intero pianeta.
Sulla falsa riga di questi progetti, tra le intenzioni di Bolsonaro ci sono quelle di mettere al bando le ong ambientaliste, come il Wwf e Greenpeace, e facilitare lo sfruttamento concreto delle risorse naturali con una folle apertura alle multinazionali estere, con l’abbassamento dei requisiti ambientali per le imprese, nonché con una serie di massicce liberalizzazioni giustificata come soluzione alla corruzione dei pubblici settori.
La svalutazione della cosa pubblica è tale che Bolsonaro, fin dal 1999, dichiara orgogliosamente di evadere le tasse, e invita tutti a fare altrettanto. Un massiccio abbassamento del carico fiscale è infatti l’altro punto saliente del suo programma.
CUI PRODEST? – In effetti, per buona parte dei 57 milioni di persone che hanno votato per Bolsonaro, l’argomento tributario è stato molto convincente. Non a caso ha suscitato scalpore l’endorsement elettorale al populista da parte di noti personaggi multimilionari dello spettacolo e dello sport: da Ronaldinho e Kakà a Felipe Massa, per citarne qualcuno. Per il resto dei brasiliani, che di certo non appartengono tradizionalmente all’estrema destra, il voto a Bolsonaro è stato dettato da ragioni simili a quelle della recente prevalsa populista in Europa e Nord America: la rottura con la “vecchia politica”, con la corruzione, e un anti-comunismo fomentato da quanto accade nel vicino Venezuela.
Que seja o início de um novo tempo para o nosso país.Que comece a caminhar rumo a uma nação justa, honesta e próspera! BRASIL ACIMA DE TUDO, DEUS ACIMA DE TODOS!!!! Parabéns @jairbolsonaro ????
— Felipe Massa (@MassaFelipe19) 28 ottobre 2018
È bene notare, però, che l’attaccamento al PT di Lula sia ancora forte tra la popolazione; cosa che è stata solo in parte scalfita dall’attuale populismo tra le frange meno informate della popolazione (e, a maggior ragione, tra le più informate). Per comprendere fino in fondo il grande exploit di Bolsonaro è utile tenere in conto la ben nota disparità socio-economica che flagella il Paese da sempre: secondo una ricerca del quotidiano nazionale Estadão, infatti, Bolsonaro ha vinto nel 97% delle città più ricche, mentre il 98% di quelle più povere ha votato per Haddad. Le promesse in termini di fisco e liberalizzazioni, in questo caso, sono state addirittura più forti della retorica populista.
Bolsonaro è in sostanza il presidente dei ricchi e delle forze armate, ma non solo: all’estero, oltre al favore riscontrato dai leader populisti (come Matteo Salvini) e razzisti (come David Duke del Ku Klux Klan), nel corso delle elezioni è stato anche il candidato appoggiato dal Wall Street Journal e dal Washington Examiner. I motivi non sono difficili da individuare: la finanza speculativa americana sarebbe la prima beneficiaria delle distruttive politiche economiche e ambientali propugnate da Bolsonaro.
Il presidente brasiliano potrebbe quindi rivelarsi un nuovo Pinochet, come è stato definito a più riprese dai media nazionali e internazionali per le idee politiche e il sostegno statunitense. Ma un Paese come il Brasile, devastato dalla violenza e dalla disuguaglianza sociale, meriterebbe di meglio. E quest’ultimo tassello di una politica mondiale alla deriva, in balia dei protagonismi senza scrupoli, è uno dei più pericolosi in assoluto anche per chi brasiliano non è, ma condivide un ecosistema di vitale importanza che ora rischia la distruzione. Come scrive Jonathan Watts sul The Guardian, in quello che è presto diventato un noto e diffuso editoriale, «il nostro pianeta non può permettersi altri populisti come Bolsonaro in Brasile».
Non possiamo permettercelo, e non se ne sentiva affatto il bisogno.